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Crepet: «Errori su errori e passiamo di paura in paura»

Lo psichiatra oggi a Palermo: «Per 70 anni abbiamo avuto crisi, solo che ora ci sembra vicina alla nostra cucina e tocca il portafoglio»

Paolo Crepet

Il Coronavirus ci ha fatto ammalare di paura e distanze. Poi non ha fatto in tempo a farsi da parte ed è iniziata l’invasione dell’Ucraina: anni duri, in cui abbiamo rivisto abitudini, comportamenti, usi e costumi, anni che hanno provocato un forte disagio giovanile. Argomenti su cui lo psichiatra Paolo Crepet - oggi ospite al Teatro Politeama di Palermo per le Domeniche civiche – ha scritto (e detto) fiumi di parole. Lo scorso anno ha pubblicato per Mondadori il libro Oltre la tempesta-Come torneremo a stare insieme»: oggi verrebbe da dire che oltre una tempesta c’è un’altra tempesta, dopo una paura se ne para davanti un’altra, in un tunnel senza fine.

«Nulla di nuovo, è sempre stato così nella storia - commenta Crepet -. Sostenere, però, che per settant’anni abbiamo vissuto in pace suona come una bestemmia nei confronti dell’umanità. Forse la tranquillità non mancava nella cucina di casa nostra, ma cosa succedeva in vari paesi africani, in Vietnam, in Corea e perfino in Europa, nella ex Jugoslavia? Adesso non siamo in guerra, eppure quello che accade in Ucraina è al centro del dibattito mondiale. Per una ragione abbastanza meschina».

Perché è stato toccato il nostro portafoglio…

«Esatto, stiamo letteralmente pagando il conto. Se non fosse per questo dettaglio, non credo che avremmo riempito social, tv e giornali su questo dramma. Errori di programmazione e di valutazione ne abbiamo commessi tanti, e li stiamo continuando a fare. La storia non ci ha insegnato nulla. Abbiamo sotto gli occhi l’equazione che più consumiamo più siamo dipendenti da qualcuno, ma non ci interroghiamo su come fare a trovare una certa autarchia non dico regionale o nazionale ma almeno europea: se non avessimo creato un’Europa burocratica e cieca, avremmo certamente considerato che dipendere per l’energia da una pipeline distante migliaia di chilometri che qualcuno può chiudere a suo piacimento e fregarci, non è stata una buona idea. Siamo impreparati alla tempesta».

Una tempesta per volta: la pandemia.

«Non ne siamo ancora usciti. L’emergenza sanitaria non occupa più la prima pagina dei giornali, a Otto e mezzo non passa più un virologo né un epidemiologo e neppure un sottosegretario ma con 140 vittime al giorno è come se quotidianamente cadesse un aereo. Mi si obietterà che si muore anche d’infarto o di altre malattie, ma per quelle non abbiamo un vaccino. E qui apro una parentesi. A fronte di un 64 per cento di italiani con la terza dose, esiste un 36 per cento di connazionali che non intende farla ed è a rischio. Significa che non abbiamo capito niente. Il livello di intelligenza negli ultimi decenni è molto calato: non usiamo più il cervello, facciamo solo funzionare le macchine e non siamo più capaci di formulare pensieri sensati: un terzo degli italiani dice no alla terza dose, dopo 150 mila morti e tanta gente ancora infettata. Che c’è di intelligente?».

Non per banalizzare ma i social qualche responsabilità ce l’hanno…

«Non c’è dubbio. Negli ultimi trent’anni che cosa abbiamo fatto se non subire e voler essere sedotti da prestazioni che non sono state solo quantitative ma anche qualitative e che hanno cambiato in maniera antropologica le nostre vite? L’efficienza non è data dalla velocità con cui adesso facciamo tutto: siamo sempre rintracciabili, lavoriamo di più e guadagniamo di meno. Il mito è Zuckerberg, con tutto il rispetto, e non più l’intelligenza pura di Leonardo da Vinci. Anche prima di questa emergenza c’erano giovanissimi che vagavano per le città, che consumavano droghe. Risultato della morte, avvenuta ormai trent’anni fa, della famiglia. Ma nessuno se ne è accorto. La pandemia ha chiuso a chiave un’intera generazione, ne ha represso ogni creatività, la scuola ha grosse responsabilità. Più che dal punto di vista sanitario, il virus ha colpito i giovani nelle politiche adottate per arginarlo».

Altra tempesta: la guerra in Ucraina.

«Una guerra che, guarda caso, è stata portata su un pezzo di terra sotto cui passano arterie energetiche che interessano la maggior parte dell’Europa, non bisogna essere strateghi per capirlo. Le questioni storiche, il riferimento alla grande Russia vanno bene nei discorsi da bar. Pare stiano cominciando a riflettere sul fatto che basta alla Russia prendersi il Donbass e la Crimea, e la finiamo. Le cose non sono andate come Putin pensava. Non so dove stiamo andando, sono sicuro che questo conflitto finirà per esaurimento, perché non ci sono soldi per mandarlo avanti e, se continua così, ci sarà un rovesciamento del potere».

Fiducia nel futuro: sembra una condizione molto lontana, intorno solo incertezze.

«Vorrei che nelle scuole oggi si parlasse con grande generosità di quanto sia complesso da immaginare il futuro. Abbiamo bisogno da parte dei giovani della riabilitazione delle loro coscienze. Un discorso sul futuro è strategico, a patto che non sia solo un fatto economico, una ricorsa al Pil, un consumismo sfrenato, cause dell’attuale situazione. Ma l’abbiamo capito o, finita la guerra, il cinismo ci porterà a stringere mani insanguinate pur di avere un metro cubo di gas? Se questa guerra uccide l’etica e la morale, è la peggiore delle guerre possibili».

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