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Il figlio dei coniugi italo-israeliani rapiti: «Parlavo con mamma, ho sentito gli spari e la telefonata si è interrotta»

Yotam e Nadav Kipnis in ansia per la sorte dei genitori, presumibilmente rapiti nel kibbutz di Beeri. Il padre è disabile, deve andare in ospedale una volta a settimana per le medicine, altrimenti rischia la paralisi

Liliach Havron ed Eviatar Kipnis, la coppia italo-israeliana dispersa

Di ora in ora i particolari della mattanza nei kibbutz israeliani per mano di Hamas e jihadisti abbassa la soglia di sopportazione dell’angoscia. Nei racconti, negli appelli dei parenti più stretti degli ostaggi strappati alle loro case e portati a Gaza c’è la necessità di speranza, non le condizioni per crederci. I figli della coppia di italo-israeliani, lui disabile, presumibilmente rapiti nel kibbutz di Beeri, dove sono stati trovati 108 cadaveri, hanno chiesto aiuto a Roma affinché metta in campo ogni sforzo per riportare a casa sani e salvi i genitori: «Speriamo che l’Italia ottenga la loro liberazione immediata. La priorità è la vita degli ostaggi, portarli subito a casa, Roma ci aiuti», hanno detto all’Ansa Yotam e Nadav Kipnis.

Parole plumbee che annegano nel vuoto di informazioni sulla sorte di Liliach Havron ed Eviatar Kipnis (nella foto), israeliani con passaporto italiano per un’antica parentela con Giacomo Castelnuovo, medico di re Vittorio Emanuele III, residenti nella piccola comunità agricola nel deserto nordoccidentale del Negev, vicino al confine orientale con la Striscia di Gaza. Di loro non c’è traccia da sabato, i nomi non sono nella lista delle vittime dell’assalto: «Non abbiamo conferme dalle autorità, ma abbiamo informazioni che ci portano a credere che siano stati rapiti: abbiamo tracciato i loro cellulari, e non sono a casa, il luogo geolocalizzato è Gaza». «Riceviamo ancora chiamate dal telefono di nostro padre - ha riferito Nadav - ma alla nostra risposta riattaccano. In mancanza di conferme sulla loro morte, la nostra speranza è che siano vivi».

Poi Yotam ricorda l’ultima volta che ha parlato con la madre. «L’ultima cosa che ricordo di mamma è la sua voce preoccupata al telefono, poi all’improvviso il rumore degli spari che rompono i vetri, rumori duri e sconosciuti che entrano nella nostra casa, la telefonata che s’interrompe», racconta il giovane, 29 anni, salvo perché aveva dormito a Ramat Gan, vicino a Tel Aviv. Il padre ha una malattia neurologica, vive sulla sedia a rotelle, deve andare in ospedale una volta a settimana per le medicine, altrimenti il suo corpo si paralizza completamente.

Sabato mattina con lui e la moglie c’era il badante filippino, Paul. «Lui alle 9.30 quella mattina ha chiamato la moglie in Israele per dirle che i miliziani stavano sfondando la porta del rifugio. Poi si è interrotta la comunicazione». «La casa nel kibbutz - ha detto Nadav - è stata incendiata». Nella stessa famiglia ci sono stati altri rapiti, probabilmente: parenti che hanno la cittadinanza tedesca e austriaca.

Il portavoce del Consiglio di sicurezza nazionale John Kirby ha detto che gli Usa faranno «tutto il possibile per aiutare con la crisi degli ostaggi, che ci siano o non ci siano americani». Ma «la preoccupazione resta alta». Hamas da parte sua tiene le porte chiuse: «Non terremo discussioni sui prigionieri e sugli ostaggi in mano delle forze della resistenza» fino alla fine della campagna militare, ha detto il leader politico Ismail Haniyeh. Le porte della speranza invece restano aperte per Yotam: «Ora è come vivere in un limbo, non so se i miei genitori siano vivi o morti. Cerco di essere realistico e fare tutto quello che è in mio potere per aiutare, non solo i miei ma tutti gli ostaggi».

 

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