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Superamento Articolo 18,
passo giusto per un’Italia più moderna

Per l’articolo 18 è cominciato l’ultimo giro. Si prepara ad andare in pensione dopo quarantaquattro anni di servizio. Vista l’anzianità, ne ha pieno diritto. Solo la storia potrà dire se la sua lunga carriera sia stata, o meno, un fatto positivo per l’economia italiana. Certo qualche dubbio resta. Tanto più che il diritto al reintegro quasi automatico, che rappresenta l’essenza della norma, non ha mai fatto parte di nessun’altra legislazione.

Neanche la riforma Fornero di due anni fa l’aveva cancellato. Casomai aveva confuso le cose aumentando le competenze del giudice. Ora, finalmente, il governo Renzi fa un deciso passo avanti annunciando il nuovo protocollo a tutele crescenti. Significa la convergenza generale verso il contratto a tempo indeterminato dove il lavoratore licenziato potrà contare solo su un indennizzo in crescita insieme all’anzianità. Si tratta di un bel passo avanti anche se non mancano le timidezze.

Per esempio il fatto che la riforma si applica solo ai neoassunti. I vecchi contratti restano sotto l’ombrello articolo 18. Una disparità difficile da accettare. Contribuisce solo ad accrescere il conflitto tra i padri iper-tutelati e i figli cui la flessibilità pesa come una condanna. Una differenza che non piace a nessuno. Tanto meno all’Europa. Il commissario Katainen (un super-falco di cui sentiremo molto parlare nei prossimi cinque anni) non ha avuto peli sulla lingua. Ha lodato la riforma criticando, però, l’asimmetricità delle tutele tra vecchi e giovani.

Un punto critico cui se ne aggiunge un altro: il pubblico impiego manterrà il diritto al posto fisso a vita o rientrerà sotto la nuova disciplina? La logica vorrebbe che il sistema fosse eguale per tutti. Altrimenti verrebbe consolidata la frammentazione del mercato fra gli iper-protetti e gli iper-flessibili. Renzi ha in mano l’occasione storica per ricomporre gli equilibri. Anche perché è chiaro che l’Europa non ci farà sconti e la dichiarazione di Katainen non lascia spazio a dubbi. La riforma del mercato del lavoro è la merce di scambio con cui Renzi può presentarsi a Bruxelles per chiedere uno sconto sui parametri di bilancio. Significa rompere il vincolo del 3% e avviare una politica di sviluppo come hanno fatto Spagna, Grecia, Irlanda. È chiaro che se il progetto non supera l’esame bisognerà tornare a studiare.

Nel frattempo la recessione avrà continuato a divorare pezzi di ricchezza, posti di lavoro, briciole di efficienza. Troppo brutale il baratto imposto dalla Ue? Può anche darsi. Tuttavia in Europa sono stanchi di promesse mai mantenute. Di impegni inderogabili che poi trovano sempre una via di fuga. Lo stesso vale per le imprese: perché sono crollati gli investimenti, soprattutto quelli provenienti dall’estero? Perché il Paese non è più ritenuto adatto a fare impresa. Il mercato del lavoro è rigido e comunque affidato, come ultima istanza, ad una giustizia di cui non tutti si fidano. La pubblica amministrazione è lenta e bizzosa, la struttura di servizi ormai datata. La riforma dell’Articolo 18 rappresenta il primo passo per ribaltare la situazione. Proprio per questo deve essere seria e definitiva. Deve dare il segno del cambiamento proprio perché la norma è stata santificata. È diventata una bandiera ideologica che sventola alta sul pennone delle anime belle. Al punto in cui stanno le cose si vince o si perde.

Non sono più possibili mezze misure. Proprio per questo ai protagonisti non è più permesso giocare a nascondino. Il centrodestra deve dire con chiarezza che cosa vuol fare. L’abolizione dell’Articolo 18 fa parte del suo programma. Nel 2001 Berlusconi, giocando di sponda con il presidente di Confindustria, Antonio D’Amato aveva cercato di abbatterlo. Era stato sconfitto. Ora ha la possibilità della rivincita. E poi il sindacato. Da qui verranno le resistenze maggiori e già ci sono le prime mobilitazioni. Le tre confederazioni devono decidere da che parte stare: vogliono difendere i privilegi oppure gli interessi reali dei loro iscritti e, soprattutto dei loro figli?

L’alternativa è tutta qui: sedersi al tavolo per discutere o scendere in piazza per manifestare. Il Paese è pieno di pensionati così come le sedi sindacali. È il momento delle decisioni: continuiamo a vivere di contributi e di tutele oppure scegliamo, finalmente, di far giocare all’Italia la partita del futuro?

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