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Vittorio Emanuele e quel proiettile a Cavallo che uccise un giovane di 19 anni

Venne assolto per la morte del diciannovenne. Anni dopo disse: «Li ho fregati»

Era la notte tra il 17 e il 18 agosto 1978, una notte estiva quella che ha condizionato tutta la vita del figlio dell’ultimo re d’Italia, morto oggi in Svizzera: Vittorio Emanuele di Savoia era a bordo del suo yacht al largo dell’isola di Cavallo, in Corsica, e accanto c’erano altre due barche, quella su cui erano presenti alcuni turisti tedeschi tra cui lo studente diciannovenne Dirk Hamer e il «Coke» del miliardario Nicky Pende, ex marito di Stefania Sandrelli.

Ad un certo punto gli ospiti di Pende decidono di usare il gommone di Vittorio Emanuele per raggiungere il porticciolo, senza chiedere al proprietario, che, appena si accorge della cosa, va a chiedere spiegazioni ai proprietari del Coke. E si porta una carabina. Ne nasce una lite furiosa, con Vittorio Emanuele che spara un colpo. Doveva servire, dichiarerà in seguito, «per intimorire gli avversari». Pende va su tutte le furie e si scaglia su Vittorio Emanuele ed è lì che parte un secondo colpo che colpisce ad una gamba Hamer. Il proiettile gli recide l’arteria femorale e arriva al coccige: viene trasportato all’ospedale di Ajaccio, poi a Marsiglia e infine in una clinica di Heidelberg, in Germania dove muore dopo mesi di agonia.

La famiglia Hamer comincia una lunga battaglia legale per ottenere giustizia ma alla fine del 1991 Vittorio Emanuele viene assolto dalla ‘Camera d’accusa pariginà dall’accusa di omicidio volontario con formula piena, ma viene condannato a sei mesi di carcere con la condizionale per porto abusivo di armi da fuoco. Le perizie balistiche verificano che il giovane è morto per le conseguenze di una ferita procuratagli da un colpo di pistola.

Nel 2006 il pm Henry John Woodcock, nel corso di un’indagine su un giro di corruzione e tangenti nota come «Vallettopoli», arresta Vittorio Emanuele che passa nel carcere di Potenza sette giorni. Dopo essere stato prosciolto dalle accuse, otterrà dallo Stato 40 mila euro come risarcimento. Ma in quei sette giorni Vittorio Emanuele, che non sa di essere ascoltato da una microspia piazzata nella cella, rivelerà a un coimputato qualcosa sulla morte di Dirk Hamer: «Anche se avevo torto, devo dire che li ho fregati», disse riferendosi ai giudici francesi.

Una «confessione» confermata in qualche modo dalla Cassazione nel 2017 in un processo nel quale Vittorio Emanuele accusava il direttore di Repubblica Ezio Mauro e un giornalista di averlo diffamato per aver scritto che lui era «quello che usò con disinvoltura il fucile all’isola di Cavallo, uccidendo un uomo». Gli ermellini affermarono che il fatto che i giudici francesi avessero assolto Vittorio Emanuele dall’accusa di omicidio volontario di Dirk Hamer, «non significa però» che il «principe» sia «esente da responsabilità sotto ogni altro profilo, giacché assume pur sempre rilievo, civilistico e anche etico» che quella morte «avvenne nel corso di una sparatoria a cui partecipò Savoia, al di fuori di ogni ipotesi di legittima difesa».

Se il verdetto di Parigi «non consentì alle autorità francesi di muovere contestazioni ad altro titolo, non per questo - scrisse la Suprema Corte - risulta illegittimo, e quindi diffamatorio, ogni collegamento del Savoia con l’incidente» di Cavallo, dato che «questo collegamento è pacifico nella sua materialità». Senza successo Vittorio Emanuele invocò il diritto all’oblio: per gli ermellini un sedicente «erede al trono» non può «dolersi della riesumazione» di una vicenda che è certamente «idonea» alla formazione della pubblica opinione.

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