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Trappola per Draghi, si sgretola la maggioranza: verso le dimissioni

Mario Draghi oggi in aula

Il premier Mario Draghi stamattina sarà alla Camera, l’orientamento del presidente del Consiglio sarebbe però quello di non aspettare il voto di fiducia a Montecitorio sulle risoluzioni ma di andare direttamente a rassegnare le dimissioni dal Presidente della Repubblica.

La giornata più lunga di Mario Draghi si consuma al Senato. Dieci ore tesissime, vissute sul filo di una crisi al buio, in cui il premier sveste i panni del «tecnocrate» e finisce nel turbine di trattative politiche intavolate last minute per mandare avanti il suo esecutivo.

A fine giornata, di fronte alla disgregazione plastica della maggioranza, tira le somme e mette i partiti davanti alle loro responsabilità, chiedendo il voto di fiducia. Prima, però, intervenendo in replica, decide di mettere alcune cose in chiaro con durezza e toni a tratti alterati.
«Da me nessuna richiesta di pieni poteri, va bene?», si scalda rispondendo alle accuse che gli erano state rivolte in Aula. E sul superbonus punta il dito su chi ha disegnato i meccanismi di cessione, alzando la voce: «Sono loro i colpevoli di questa situazione per cui migliaia di imprese stanno aspettando i crediti! Ora bisogna rimediare al malfatto».

Al mattino, quando ancora c’è qualche speranza di ricomposizione della maggioranza, Draghi entra sorridente a Palazzo Madama. E’ circondato dai suoi ministri, stringe mani, si concede un caffè. Ma la giornata, già dopo le comunicazioni che pronuncia davanti ai senatori, inizia a prendere un’altra piega. Il suo discorso non è conciliante come qualcuno si aspettava, è fermo, non fa sconti.

Il nuovo patto fallisce

Da un lato ripropone un nuovo patto di coalizione, dall’altro mette paletti ben precisi, un vero e proprio programma per poter andare avanti. Dal Pnrr che bisogna portare avanti a tappe serrata con le riforme, fino ai provvedimenti per sostenere famiglie e imprese. Prima di iniziare, un difetto dell’amplificazione lo interrompe per pochi secondi: «Io credo che ci sia qualcosa che non funzioni». Una volta risolto, Draghi è un fiume in piena. Spiega perchè la scorsa settimana - dopo il non voto dei pentastellati sulla fiducia sul dl aiuti - ha rassegnato le dimissioni, racconta il passaggio al Colle e rilancia l’agenda per proseguire l’impegno a Palazzo Chigi. Quando si sposta a Montecitorio per consegnare le sue comunicazioni.

Lega e Forza Italia lasciano l'Aula

Al Senato, i primi interventi dei 5 stelle, le reazioni piccate del centrodestra continuano a segnare la rotta della giornata. La telefonata con Silvio Berlusconi, i contatti con esponenti del Pd, il ponte tentato dai dem e LeU con il Movimento servono a ben poco.

Al termine del dibattito si tenta l’ultima mediazione: una sospensione della seduta per trovare la sintesi in extremis, in cui Draghi torna a Palazzo Chigi.
In un’ora e mezza, dalle 15.30 alle 17 circa, si intensificano i contatti a tutti i livelli: è l’ultimo spiraglio. In questo arco temporale è plausibile che Draghi abbia sentito anche il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, il quale - secondo quanto riferiscono ambienti parlamentari - avrebbe, a sua volta, avviato delle consultazioni telefoniche con i leader della maggioranza per fare il punto della situazione. Ma nulla si smuove: i 5 stelle e il centrodestra restano sulle loro posizioni, peraltro distantissime.
Quando rientra a Palazzo Madama per la replica, i giochi sono fatti. Draghi ha un altro piglio, più duro, determinato alla resa dei conti. L’intervento di replica spiazza diversi parlamentari che nei capannelli commentano: «Mai visto così».
Il redde rationem si concretizza nella richiesta di fiducia su una risoluzione scarna, presentata da Pierferdinando Casini in cui si chiede di approvare le sue comunicazioni. Tanti eletti gli si avvicinano, qualcuno suggerisce di andarsi a dimettere prima della votazione. Alla fine, il presidente lascia l’Aula alle 19.30. A questo punto, chi lo incontra lo descrive sorridente, rilassato. Il dado è tratto, forse la tensione è calata. Dopo poco, arriva l’ora della verità: la fiducia passa ma con soli 95 voti, Lega, Fi e M5s non votano.

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