Bucha è morta il 4 marzo, quando venti carri armati sono entrati nella strada Yablunska come un virus iniettato che ti dilania da dentro. Subito. Con una raffica interminabile di proiettili scaricati sulle casette dei contadini, durata tutto il tempo del passaggio in quella prima via, lunga un chilometro. Poi l’invasione è arrivata ovunque, così come i cadaveri. I proiettili hanno distrutto vetri, trafitto mura e porte, ucciso uomini, donne e bambini. I carri armati hanno schiacciato qualsiasi essere umano o macchina che incrociavano. L’occupazione è durata più di un mese. E in tutto questo tempo le persone hanno vissuto barricate in casa con i cadaveri per strada, a terra o nelle auto. Ascoltando dall’interno urla e spari. Nessuno poteva recuperarli e la gente di quel villaggio agonizzante guardava dalle finestre i corpi putrefarsi, giorno dopo giorno. Chiusa in casa, ma senza poter entrare nei rifugi allestiti nelle abitazioni: ordine dei soldati. E in giro ancora adesso tutto è rimasto così com’era e le macchine, i furgoni o i camion dei civili - calpestati dai carri armati al loro arrivo - sono ancora lì dal 24 febbraio, contrassegnati con lo spray dai simboli della ‘Z’ dell’invasione e della V di vittoria.
Nella strada Ivan Franko, invece, i miliziani hanno fatto irruzione nelle case, portato via risparmi, cibo e donne. Le trentenni venivano usate per cucinare ed eseguire gli ordini in quelle case diventate per qualche giorno il quartier generale di militari russi. In alcune di queste, nelle camere delle torture, sono stati trovati corpi senza vita di civili con le mani legate.
E’ per tutto questo che oggi l’entrata da Irpin verso Bucha è diventata una lastra di ghiaccio affilata che si conficca nello stomaco man mano che ci si avvicina. Per il martirio sono stati scelti gli abitanti del villaggio e non la parte alta, quella con i palazzoni a dieci piani comunque sventrati dai proiettili dei carri armati. Una scelta non casuale, visto che per i soldati nelle casette basse e povere era più facile controllare le persone e scongiurare le imboscate. E poi in giro è facile colpire chi prova a uscire. Per molti, andare a prendere l’acqua è stato un rischio troppo alto: se un soldato ti vedeva, dopo un attimo eri cibo per le volpi e ti ritrovavi a terra senza un volto.
«E’ dal 10 marzo che arrivano decine di corpi. Finora ne ho contati 68, molti non sono identificabili», dice Andryi, prete della chiesa ortodossa di Sant’Andrea. Le fosse comuni alle spalle della cappella ora sono solo una parvenza decente e un modo per nascondere l’inspiegabile. Anche a se stessi. Lidia, anziana lavoratrice nel vicino laboratorio di ceramiche, piange la morte di due ragazzini: «Li hanno uccisi soltanto perché sedevano vicino al rifugio». Alla vista di chiunque venga da fuori, invitano ad entrare e pregare nel giardino, dove molti hanno scavato la fossa per il parente ucciso, preso una vanga e messo una croce. Tamara ha seppellito il fratello, ma non è morto col piombo dei miliziani, aveva il cancro e non ha potuto più uscire per andare a prendere le medicine. Andreij ha sistemato la bara in giardino ancora vuota e sta aspettando che qualcuno lo aiuti a mettere il cadavere della zia dentro, che giace ancora sul divano. Parlando con chi ha vissuto tutto questo, nei racconti c’è una parola che torna sempre, pronunciata con voce sottile: «neliudi», dicono, «disumano».
Per il presidente del Parlamento ucraino «è stato l’Olocausto del nuovo millennio, una tragedia per l’Ucraina ma anche per l’Europa e il mondo». Volodymyr Zelensky invece, che oggi è venuto qui per vedere con i suoi occhi i tanti corpi ancora per strada, sui marciapiedi, nei giardini, sotto la ferrovia, si è rivolto alle madri dei soldati russi: «Anche se avete cresciuto dei saccheggiatori, come possono essere diventati anche dei macellai? Hanno trattato gli ucraini peggio degli animali...». I militari di Kiev, che ora rimuovono i tank bruciati dalle bombe della resistenza (in una strada ce ne sono più di una decina distrutti), adesso non mostrano pietà. Di fronte a due cadaveri russi, bruciati e scarnificati dalle bombe, un soldato non smette di ridere e dice: «Guardali in mezzo alle gambe, giuro che noi non gli abbiamo tagliato nulla, i russi hanno proprio il cazzo invisibile». Intanto vicino alla vecchia ferrovia si sentono ancora degli spari in lontananza, segno che non è ancora finita e lì vicino tutto questo forse il «neliudi“ si sta ripetendo. Quando a uccidere sono uomini, che scelgono contro chi premere il grilletto del kalashnikov tra le mani, e non le bombe, tutto assume un significato diverso, che spinge una donna a ripetere: «Non sono soldati!». Nel suo dolore esprime il senso di ciò che è successo qui nel villaggio. E forse ha ragione. Qui non è stata guerra, ma non si sa cos’è. C’è stato un salto di livello che non trova parole né spiegazioni: a Bucha il male è diventato indicibile.
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