«Lo scontro nel Pd nasce da un deficit d’identità che la vorticosa ascesa di Matteo Renzi ha solo mascherato e non risolto». Lo sostiene Stefano Cappellini, caporedattore del quotidiano «Il Messaggero». Una ricerca d’identità nel Partito democratico che emerge con più forza in questi giorni, proprio mentre la Sinistra affronta il destino dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.
Il dibattito sulla riforma del lavoro ha evidenziato una contrapposizione tra maggioranza e minoranza all’interno del Partito democratico. Perché avviene questo?
«Il lavoro di per sé è una questione centrale e molto rilevante. Ma, al di là della discussione specifica, è chiaro che Renzi ha voluto puntare molto su questo tema, anche per un fatto politicamente simbolico. Si affronta, infatti, un argomento che in questi ultimi anni è stato oggetto di un dibattito piuttosto forte e che rappresenta, anche all’interno della sua Sinistra, un tema che comunque divide. Può rappresentare, dal punto di vista di Renzi, un tentativo di cambiamento dell’agenda di governo e, per certi versi, dello stesso dna culturale della Sinistra, come la vede Renzi. La sua operazione è quindi duplice: da una parte mette in campo una riforma che comunque è chiesta dall’Europa ed è tra quelle più urgenti, ma dall’altra parte lancia una nuova sfida culturale. L’obiettivo di Renzi è, quindi, quello di portare il risultato da tutte e due le parti: approvare una riforma ma anche dimostrare che la Sinistra è cambiata e non è più quella del “vecchio” Partito democratico».
Si parla di deficit d’identità nel Pd. In che senso?
«Questo non è un problema di Renzi o che nasce con Renzi. Il deficit d’identità nel Pd è un problema che arriva da molto lontano. Il Partito democratico nasce come somma di due vecchie tradizioni politiche, ormai del tutto chiaramente superate. Ha sempre fatto una fatica molto grande a capire che tipo di partito voleva diventare. Basti ricordare che per anni c’è stato un teatrino infinito su quale fosse la collocazione europea del Partito democratico. Ci sono state liti, minacce di scissione, scomuniche reciproche... finché poi è arrivata la collocazione europea definitiva. Il Pd ha sempre fatto fatica a identificarsi con una natura, una identità politico-culturale precisa, proiettata sul futuro anziché basata sulle grandi tradizioni del passato. E chiaramente, anche Renzi deve affrontare questo problema. Perché la verità, a mio giudizio, è che Renzi prima ancora che su una sua proposta concreta, di contenuti, ha vinto principalmente sulla sua carica di novità».
Come è stata possibile questa vittoria?
«Renzi ha sbaragliato la vecchia guardia sostanzialmente perché si tratta di un candidato nuovo con una grande carica, un grande coraggio e grande determinazione. Tutto questo a fronte di una vecchia classe politica della sinistra, di una nomenclatura che era ormai da vent’anni sempre la stessa e non aveva più alcuna credibilità. Renzi la sbaraglia non essendoci competizione sul fronte della novità e della carica di innovazione. I contenuti specifici di questa carica d’innovazione sono sempre rimasti un po’ in secondo piano. Renzi, ormai, è il capo indiscusso del Partito democratico ma quale sia l’identità politica e culturale del Pd di Renzi resta ancora da definire. Uno sforzo di collocazione, uno sforzo di identità ancora non è stato fatto. Su questo aspetto la “prova provata” è che la classe dirigente sul territorio, come anche quella presente nella segreteria è la stessa di prima. Tolti i cosiddetti "renziani della prima ora”, una larga parte della classe dirigente non è cambiata con l’arrivo dello stesso Renzi. Il Pd al momento non è né carne, né pesce. È trainato dalla grande forza di questo leader nuovo, che ha un grande consenso anche fuori dal Pd… ma cosa sia il Pd al di là di Renzi è ancora da vedere».
La personalità di Renzi che peso ha nella ricerca d’identità di questo partito?
«Una grande personalità per i partiti rappresenta sempre un’arma a doppio taglio. Da una parte la politica moderna non può fare a meno di leader come Renzi, personalità carismatica con capacità di persuasione e comunicazione. Questo eccesso di personalità però rischia di diventare per i partiti una sorta di camicia di forza. Tutto si concentra sul leader e il partito si prosciuga, perde di importanza. E finisce per essere una sorta di comitato elettorale a servizio del leader stesso. Per certi versi in questo può esserci una similitudine con Berlusconi. Ancora oggi continua ad essere il leader del centrodestra, ma ovviamente le formazioni politiche che sono dietro a Berlusconi tendono col tempo a soffrire molto».
Su twitter lei scriveva: “Nel paniere della sinistra entrano il liberismo, la riforma dell'articolo 18 e il merito. Esce l'iscrizione al Pd”...
«Facevo riferimento alla notizia dei tesseramenti nel Pd. È ovvio che quando ci sono leadership così forti, tutto è centrato sui leader. Si crea così un meccanismo per cui tutto il partito è il leader. È chiaro come ci sia poi una tendenza dell'organizzazione a finire. Ha meno senso iscriversi a un partito quando c’è un leader che fa tutto da solo… Scompare il concetto di militanza e partecipazione e prevale quello mediatico, verticistico. Anche se bisogna sottolineare un altro aspetto: la crisi di iscritti non si accompagna ad una crisi di consenso. Il partito, in quanto organizzazione, diviene invece, per certi versi, uno strumento inutile».
Struttura, pensiero, militanza. Idee e consenso reale: sono ingredienti presenti oggi nel Pd e in che misura?
«Secondo me sono molto poco presenti. I leader con grande personalità, alla fine, catalizzano tutto nella formula “o con me, o contro di me”. Tutto questo non si basa sui contenuti ma diventa una forma di schieramento, a prescindere, pro o contro il leader. È quello che è un po’ successo in questi anni anche con Berlusconi. Si era berlusconiani o antiberlusconiani per una questione quasi antropologica. Alla fine i contenuti venivano sempre in secondo piano. La stessa cosa rischia di succedere con Renzi».
E il centrodestra oggi a cosa guarda?
«Il centrodestra sta andando verso una totale marginalizzazione. In questo momento Berlusconi ha scelto, in qualche modo, di fare da sponda a Renzi e non solo sulle riforme istituzionali. Questo sul breve offre dei vantaggi a Berlusconi che è tornato in campo con un nuovo ruolo. È però difficile immaginare che il centrodestra in Italia possa andare avanti ancora a lungo con un ruolo così marginale rispetto all’azione di governo, consegnandosi in qualche modo a una sorta di collaborazione permanente con Renzi. Non credo che questa situazione possa durare a lungo. Perché forse sarebbero proprio gli elettori di centrodestra a rigettare alla lunga questo scenario».
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