ROMA. «Provo un'intensa avversione per il ruolo del drammaturgo. Ti dicono continuamente cosa hai sbagliato, come avresti potuto fare meglio, che non è realistico, che non è andata proprio così. Loro come lo sanno? C'erano ai piedi della Croce? O quando hanno fatto entrare il cavallo di Troia?». Potrebbero, forse, essere parole sue. Ma Peter Greenaway questo j'accuse lo affida al suo alter ego, lo stampatore-capocomico del tardo '500 protagonista del suo ultimo film, «Goltzius & The Pelican Company». Dopo due anni di attesa e dopo aver fatto il giro del mondo, la pellicola ora debutta al cinema anche in Italia, distribuita da Lo Scrittoio e Maremosso in una selezione di sale d'essai come il Truffaut di Modena (dal 20 gennaio), l'Odeon di Firenze e il Lumiere di Bologna (dal 22), il Massimo di Torino e il Giorgione di Venezia (dal 23), il Palladium di Roma e il Miela di Trieste (dall'1 e dal 4 febbraio).
Prima, la pellicola aveva debuttato al Festival Internazionale del Film di Roma del 2012, riempito le sale di grandi musei come il Louvre e la National Gallery di Londra e anche le platee dei teatri, enfatizzando, fuori e dentro lo schermo, quel continuo scambio con arte e teatro che è il cinema di Greenaway. Il tutto, tra forti applausi e non poche polemiche come da 72 anni e una ventina di pellicole è nella cifra del grande «pittore» del cinema britannico. «Sono provocatorio, è fondamentale che un artista lo sia», ha spiegato più volte lui, che anche in questo film non lesina «sberleffi» pure alla religione, ad esempio, giocando con le parole «God-Dog» (in inglese, «Dio-Cane»).
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