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Cotroneo, se l’opera d’arte diventa l’uomo che sta osservando l’opera d’arte

ROMA. I suoi scatti svelano ciò che siamo: lo sguardo di Roberto Cotroneo (che osserva senza essere visto) non mente.

Un museo per scenario, uomini e donne per attori, una platea di lettori per spettatori di questa grande rappresentazione! Non è l’Enrico V del Bardo ma l’intento dell’autore che, al suo ventitreesimo libro, «Genius Loci. Nel teatro dell’arte» (collana In parole ed. Contrasto, 130 pagine, 22,00 euro), sceglie di passare dalle parole all’immagine, diventando «fotografo di scena» sul set di gallerie e musei d’Italia, dal Maxxi di Roma al Mart di Rovereto, al Museo egizio di Torino.

La fotografia come strumento d’indagine, quindi, i luoghi dell’arte come palcoscenici e, per protagonisti, uomini e donne, inconsapevoli attori che portano il loro mondo all’interno di quegli spazi che conservano e tramandano il culto dell’arte. Ma «Genius Loci» di Cotroneo, oltre a essere il titolo del volume specchio del nuovo millennio, è anche quello della sua prima mostra alla Galleria nazionale d’arte moderna e contemporanea di Roma (fino al 4 giugno). Ritratti d’un paesaggio umano colto mentre si muove e guarda ma non sa d’esser guardato, visitatori museali che Cotroneo inquadra in maniera composta tra riflessi, luci e penombre; gente comune dalle posture talora improbabili che si muove, scivola (o si sdraia) tra opere d’arte non sempre (ri)conosciute: «un’imprecisa moltitudine dove nessuno è consapevole di se stesso perché essere guardati non è previsto».

Ma, nella solennità degli spazi museali, spesso manca la sospensione del tempo: tra quadri e statue millenarie, il presente irrompe prepotente perché il pubblico è dotato degli strumenti d’uso quotidiano come tablet e smartphone.

Ecco quindi vedere visitatori impegnati con scatti compulsivi, da condividere sul web, alla ricerca dell’ennesimo, irrinunciabile «like», «autocertificazione d’esistenza in vita», come li ha definiti Ferdinando Scianna (che, alla Galleria nazionale, ha presentato il volume di Cotroneo, con il Ministro dei beni culturali, Dario Franceschini). Perché, se prima la fotografia aveva un forte significato emotivo e simbolico «ora prende significato in quanto condivisione, e non come scatto in sé».

Cotroneo, non visto, ha guardato chi guardava, rovesciando lo sguardo, «mettendo ordine tra gli spazi e i corpi»: con quei movimenti, il pubblico ha trasformato gli spazi espositivi e persino le opere in mostra perché, nel Museo del mondo, l’uomo è forse l’opera d’arte più bella.

Cotroneo, nel 2016 oltre 44 milioni di ingressi a musei e siti archeologici: come spiega questo record?

«Il mondo è cambiato ma quello che si pensava potesse trasformarsi in disastro contemporaneo ovvero l’uso smodato di internet, tablet e smartphone, ha, invece, cambiato la percezione del sapere. Al netto dei contenuti, oggi la gente comunica e scrive di più. E, in un mondo ubriaco di storie e immagini, è cambiata anche la fruizione del museo: entrarci non è più evento eccezionale ma quotidiano».

Italiani popolo di eroi, santi, poeti e fotografi? Ormai è tutto un clic da smartphone...

«Non è il mezzo usato che farà la differenza. Prendiamo Word: è solo un programma di scrittura per computer che consente di resettare o correggere in modo più
veloce. Ma ciò non significa che tutti quelli che usano un computer sapranno scrivere poesie. Così è con la fotografia: non sarà il digitale a decretare la nascita di nuovi, grandi reporter. Il problema, semmai, sorge quando molti pensano d’esser diventati artisti…».

Ferdinando Scianna ha detto che, nell’estrema diffusione della pratica fotografica, c’è la sua morte culturale…

«Quelle con gli smartphone non sono fotografie ma appunti di vita che si trasformano in selfie quando si rende testimonianza del passaggio in un luogo: si vuol condividere la propria vita non le foto. Che, se fatte con lo smart, hanno tutto a fuoco come l’occhio umano. Siamo al teletrasporto dello sguardo: clicco e mando dall’altra parte del mondo».

Quando nasce l’idea di «Genius loci»?

«Nel 2013 ho ricominciato a fotografare in modo diverso, diciamo più tecnologico. Così, fino al 2015, studio, sperimento e imparo cosa si può fare col digitale e, dalla camera oscura passo a quella chiara: davanti a me avevo un mondo nuovo di cui non sospettavo l’esistenza. Per praticità abbandono il bianco e nero ma solo perché il digitale fotografa a colori, e inizio a lavorare in forma sperimentale. Dal marzo 2015 a marzo 2017, ho trascorso centotrenta giornate in musei e gallerie, scattando 25 mila fotografie. Di queste, con Roberto Kock e Alessandra Mauro, ne abbiamo scelte 30 per il libro mentre per la mostra ne ho selezionate 50».

Il libro è anche una velata denuncia del pubblico che affolla i musei senza avere piena consapevolezza del valore delle opere che ha davanti?

«No, il museo come contenitore e i suoi spazi espositivi, negli ultimi quarant’anni, sono realizzati da celebri archistar: l’opera d’arte è essenziale ma il valore aggiunto è il pubblico».

Quindi come potremmo definire il genius loci?

«È l’essenza del luogo, lo spazio dentro il quale si costruisce l’attesa che poi il pubblico completa. Perché, nel teatro dell’arte, la scena non è quella dell’opera ma del pubblico».

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