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William Klein, l’eterno curioso che reinterpreta le nostre vite comuni - Foto

MILANO. Ottantotto ma non li dimostra.

Merito, forse, anche del suo motto: niente regole, niente divieti o limiti. Innovatore della fotografia che ha concepito come fosse un esploratore, ribelle, geniale e curioso, William Klein non smette di stupire e stupirsi perché fa quello che la sua forza creativa gli suggerisce.

Oggi come sempre.

Come nel giorno dell’inaugurazione della retrospettiva, William Klein.

Il mondo a modo suo, che Milano gli dedica fino all’11 settembre a Palazzo della Ragione Fotografia quando, davanti ad autorità e pubblico delle grandi occasioni, ha chiesto a tutti di cantare in coro la canzone italiana più celebre: quel Nel blu blu dipinto di blu che, nel 1958, regalò l’immortalità canora a Domenico Modugno. Una divertita Alessandra Mauro, curatrice della mostra (che propone centocinquanta scatti, installazioni, film e materiali provenienti dall’archivio personale dell’autore), ricorda l’episodio.

«Klein ha quasi novant’anni - dice - ma cerca e vuole la folla. Si muove nel mondo come fosse un’Alice nel paese delle meraviglie, partecipa e chiede partecipazione. La mattina dell’inaugurazione aveva già chiesto ad un mendicante suonatore, incontrato per strada, di accennargli qualche nota della canzone di Modugno e per tutto il giorno non ha fatto che canticchiare «volare…oh…oh…nel blu dipinto di blu, felice di stare lassù», sapendo che l’idea del testo era stata ispirata dai quadri di Marc Chagall (Le coq rouge dans la nuite Le peintre et la modèle, ndr). La sera anche autorità e pubblico hanno (di buon grado) risposto alla richiesta e a Palazzo della Ragione è stato tutto un “volare…oh..oh”».

Un’abitudine, quella di monsieur Klein per il «bel canto» visto che tra i film sperimentali da lui girati, c’è anche quello in cui, ad una umanità variegata per età ed estrazione sociale fa cantare il Messia di Handel. Fotografo trasgressivo ma anche regista, pittore, grafico, scrittore, Klein, ebreo di origine ungherese, nasce a New York nel 1928, studia sociologia ma poi si arruola nell’ esercito e viene mandato in Germania e poi in Francia, dove si stabilisce definitivamente.

Inizia con pittura e scultura e lavora da Fernand Léger ma poi sposta la sua attenzione sulla fotografia di moda lavorando per la rivista Vogue.

Nel 1957 vince il premio Nadar per New York, un diario fotografico, uno strabiliante e innovativo reportage realizzato con la sua Leica nella sua città natale, una Big Apple squallida e brutta, vista «con un occhio americano e uno europeo», ha detto, perché si sentiva «come un etnografo che trattava i newyorchesi come un esploratore avrebbe trattato uno zulu: sempre alla ricerca dello scatto più crudo».

E il suo occhio da «urban photographer», il suo dinamismo visivo non lo abbandona neanche se si muove e lavora a Roma, Tokyo, Mosca e Parigi.

Quello di William Klein è l’occhio rivoluzionario che ha trasformato la realtà senza abbellirla, «a modo suo». Il grandangolo che usa in modo spregiudicato regala immagini dal forte impatto emotivo anche se incuranti delle leggi di prospettiva. Alessandra Mauro ha costruito la mostra milanese in un itinerario suddiviso in nove sezioni: prime opere; New York; Roma; Tokyo e Mosca; Parigi; moda; contatti dipinti e film.

Ma com’è il mondo secondo Klein?
«È una grande giostra colorata, piena di persone che si muovono e vivono la vita in velocità. Klein è sempre stato un fotografo curioso, con gli occhi bene aperti sul mondo e, nonostante sia un ragazzo del 1928, continua ad avere lo sguardo meravigliato per tutto ciò che il suo vede: è un uomo che sale sulla giostra della vita, divertendosi»

Ha lavorato in molti campi, ma è passato alla storia per essere il fotografo che “ha cambiato il modo di farla”. Cos’ha aggiunto?
«Ha fatto molti mestieri legati, però, dalla creatività, che è stata il fil rouge che l’ha contraddistinto. Ma tutto nasce dall’esigenza di realizzare le sue idee rapportandosi al mezzo migliore: la sua è una necessità creativa. Quindi, cambia mezzo al cambiare dell’idea: fotografia, pittura o cinema per lui pari sono perché, a comandare, è l’idea di ciò che vuol realizzare. Da qui l’esigenza di cambiare il mezzo espressivo per cercare al meglio d’avvicinarsi all’idea da realizzare. E questa è stata la grande inversione di William Klein: nello specifico, direi che ha reso il mezzo fotografico estensione del suo sguardo. Siamo agli antipodi rispetto a Henri Cartier-Bresson che coglie la perfezione dell’attimo».

Ovvero?
«L’attimo perfetto esiste anche senza lo sguardo di Bresson. Klein, invece, è invasivo, si diverte, provoca e chiede una reazione alla gente. Che, ovviamente, reagisce alla presenza forte del fotografo».

Adora i luoghi affollati, le città metropolitane e non la calma degli spazi aperti, è molto lontano dal «grado zero» della fotografia…
«Abita a Parigi da quando aveva diciotto anni e il pensiero di abitare stabilmente in campagna credo che potrebbe ucciderlo. Nonostante abbia una casa che la moglie adora…».

Da Parigi a Roma passando per New York e Tokyo: qual è lo specifico di queste capitali che Klein coglie?
«Cambiando i fattori, si vedono persone diverse muoversi in spazi differenti, sono elegie cittadine. Quello di New York, ad esempio, è un racconto autobiografico precipitato, denso e condensato, in cui Klein si muove benissimo perché lì è cresciuto. La sua Roma è una stupenda città del dopoguerra, del boom economico, spensierata: location perfetta in cui si muovono i “poveri ma belli”. Con Tokyo il rapporto è altro, gli elementi stilistici sono particolari e lo stesso Klein, da europeo d’adozione, cerca quei canoni che tutti noi cercheremmo. Così come con Mosca: lui la conosce e la ama attraverso i libri di Tolstoj, Cechov e, soprattutto, Dostoevskij. Il suo è un viaggio alla ricerca della grande anima russa».

Col grandangolo ha un rapporto quasi morboso…
«È lo strumento che Klein preferisce, il mondo appare per come te lo senti, sempre in bilico tra sogno e realtà.Da un cambio di lente c’è quello di una prospettiva diversa».

In fotografia è più affascinante il risultato del caos di Klein o il momento decisivo di Henri Cartier Bresson?
«Caos? Lui lo chiama ritmo. Che è anche flusso di vita: ha quasi novant’anni ed è attratto dal movimento, in tutte le sue forme. Non scordiamoci che, ad inizio di carriera, era un grafico che usava anche elementi cinetici in movimento».

Dopo la fotografia, il suo successivo obiettivo è diventato il cinema. Cosa lo appassionava di Fellini?
«Ovviamente i suoi racconti onirici. Riuscirono a vedersi e fu Fellini a proporgli di diventare suo assistente. Il regista intuì la genialità di quel ragazzo e lo impiegò nel casting di Le notti di Cabiria alla ricerca di prostitute e protettori. Più vita di quella per uno come Klein non c’era…. Nacque allora l’idea di un libro su Roma. Tanto più che a portarlo in giro aveva Ennio Flaiano, Pier Paolo Pasolini e Alberto Moravia».

Come definirebbe Klein?
«Un ragazzo audace e ottimista».

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