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Addio a Lina Wertmüller: è stata la prima regista in corsa per l'Oscar

Quegli occhiali bianchi, divenuti nel tempo un simbolo e un’icona, da oggi non celano più il brillio birichino e pungente della donna e dell’artista che per decenni ha riunito in sé un’immagine dell’Italia applaudita e amata in tutto il mondo. Lina Wertmüller non c'è più, ma potremmo scommettere che proprio in questo momento, da qualche altra parte, sta ridendo del suo ennesimo scherzo al destino: la morte non le faceva paura.

Le marionette e la radio

«Gli anni ci sono e si sentono - diceva appena poco tempo fa - ma lavorando mi sono divertita tutta la vita e non è poco». Per capire il segreto di questa artista dalla volontà ferrea, dal talento inesauribile, dal fisico minuto e dal cuore grande, bisogna forse tornare molto indietro, alle origini della sua carriera. Fin da ragazzina ha il fuoco dello spettacolo nelle vene, scopre il teatro tradendo le aspettative di famiglia, ma si concentra su tre linguaggi diversi: le marionette (ha il dono di dare un’anima a ciascuna), la radio (dove compone un brillante sodalizio con Matteo Spinola, poi elegante principe della promozione cinematografica), il cinema di scuola felliniana (il Grande Riminese sarà il suo mentore all’esordio nella regia).

Garinei & Giovannini

In più ha nel bagaglio due maestri d’eccezione come Garinei & Giovannini, che la porteranno in tv per una fortunata edizione di «Canzonissima». In questo crogiuolo di esperienze si va formando un talento originale e, paradossalmente, senza una sola discendenza artistica. Quello di Lina è un linguaggio spregiudicato, in anticipo sui tempi, capace di portare la commedia sui sentieri dell’assurdo e, insieme, di restare legato alla realtà di un paese che cambia e scopre il benessere del boom.

L'esordio

Il suo esordio con «I basilischi» (1963) è un esplicito omaggio a «I vitelloni» di Fellini ma, fin dall’ambientazione in un Sud a lei ben noto (il film fu girato in gran parte a Palazzo San Gervasio, nel Potentino, da cui veniva la sua famiglia), parla di un’altra Italia, solare e disincantata che tornerà spesso nella sua narrazione del mondo.

L'Oscar e la storica nomination

Non a caso la motivazione dell’Oscar alla carriera che nel 2020 confermò il prestigio internazionale che l’Academy le attribuiva fin dalla nomination come migliore regista (prima donna in assoluto a ottenere l’attenzione di Hollywood nel 1977 per «Pasqualino settebellezze») recita: «Per il suo provocatorio scardinare con coraggio le regole politiche e sociali attraverso la sua arma preferita: la cinepresa».

Le pietre miliari

Oggi ci lascia in eredità 23 film, alcuni dei quali sono pietre miliari del costume («Mimì metallurgico», «Travolti da un insolito destino») e altri perfetta incarnazione di un’idea colorata e attraente dell’Italia (Sabato, domenica e lunedì» e il sodalizio con l'amica adorata Sophia Loren).

Gianburrasca con Rita Pavone

Ma il tratto in fondo più originale è la spregiudicata libertà delle sue scelte: debutta col cinema d’autore, ma subito dopo non si fa scrupolo di provarsi (sotto pseudonimo) con lo spaghetti western («Il mio corpo per un poker» con Elsa Martinelli) per far capire ai produttori che la regia è anche mestiere da donna. Scopre la vena istrionica di Rita Pavone, la collauda in un paio di «musicarelli» e poi la esalta nel memorabile «Giornalino di Gianburrasca» girato per la televisione tra il 1964 e il 1965.

Il grande ritorno con Paolo Villaggio

Raggiunto il successo nel decennio d’oro degli anni '70, vira ancora verso il racconto surreale («La fine del mondo nel nostro solito letto», 1978); si dedica a Napoli e alla sua cultura prediletta, ma il suo grande ritorno viene in accordo col genovese Paolo Villaggio per «Io speriamo che me la cavo» (1992).

Il silenzio dopo il David

Disgustata dalla disattenzione della distribuzione tradizionale, abbraccia nuovamente il racconto televisivo alle soglie degli anni Duemila, ma dopo il David di Donatello alla carriera del 2010 depone le armi e si ritira in un dignitoso silenzio. Un vero peccato perché la sua verve è viva fino all’ultimo giorno e dal suo carniere avrebbe potuto estrarre altri gioielli.

I set di Fellini

«Ho sempre avuto un carattere forte, fin da piccola - raccontava Lina Wertmueller- . Sono stata addirittura cacciata da undici scuole e sul set ho sempre comandato io». Piccola, tenace, vitale ma capace di scontri furibondi e di amicizie indistruttibili, Lina a soli 17 anni si iscrive all’accademia teatrale di Pietro Sharoff, debutta come regista di burattini con la guida di Maria Signorelli, scrive per la radio e la televisione mettendo in mostra un estro surreale e comico che sarà la sua arma vincente, va a scuola di cinema da Fellini sui set di «La dolce vita» e «8 ½» e quando debutta nel lungometraggio con «I basilischi» nel 1963 già vince la Vela d’oro al Festival di Locarno. L’anno dopo, il sodalizio con Rita Pavone per «Il giornalino di Giamburrasca» ne fa d’un colpo una regista ricercata dai produttori.

Il matrimonio

Nello stesso periodo incontra l'apprezzato scenografo teatrale Enrico Job con cui si sposerà, dividerà tutta la carriera artistica e adotterà la figlia Maria Zulima.

Il primo film con Giannini

Al bivio tra il cinema «autoriale» e quello di genere, Lina non ha mai esitato a scegliere la via di un cinema popolare e di immediata empatia. Così nel 1972 scrive e dirige il suo primo, grande successo, «Mimì metallurgico ferito nell’onore», in cui per la prima volta fa coppia artistica con il suo protagonista per eccellenza, Giancarlo Giannini. Il film ha un travolgente successo in sala e si guadagna l’invito al festival di Cannes.

La femminilità senza etichette

In età matura era sempre più attratta dalla cultura partenopea tanto da meritarsi la cittadinanza onoraria di Napoli e da debuttare al Teatro San Carlo con una felice regia della «Carmen» di Bizet. Si è divertita anche in veste di doppiatrice per «Mulan» o come attrice nel gruppo dei «poteri forti» in «Benvenuto Presidente» di Riccardo Milani. A lei dedica un bellissimo omaggio il suo collaboratore storico Valerio Ruiz: «Dietro gli occhiali bianchi», presentato nel 2015 alla Mostra di Venezia. Oggi piace ricordarla come una campionessa della femminilità senza etichette e «quote»: nel cinema resta unica, inconfondibile, nella vita continuerà a essere un modello di donna cui guardare con ammirazione.

 

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