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Padovani: «Falcone detestava il protagonismo, oggi vedo cose penose in magistratura»

Continua il viaggio del nostro editorialista Costantino Visconti, direttore del dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Palermo, attraverso i temi variegati della giustizia italiana. Dopo i dialoghi con Stefano Musolino (21 settembre 2021), Giuseppe Pignatone (24 ottobre 2021), Marta Cartabia (21 dicembre 2021), Fiammetta Borsellino (17 Febbraio 2022), Giuseppe Di Lello (6 Marzo 2022), è la volta di Marcelle Padovani, giornalista e scrittrice francese, autrice fra gli altri dei libri «Cose di Cosa nostra» scritto con Giovanni Falcone e «La Sicilia come metafora», con Leonardo Sciascia.
(Testo elaborato da Andrea Merlo)

Marcelle, hai il merito di avere scritto «Cose di Cosa nostra» con Giovanni Falcone, un libro che è una pietra miliare della storia dell’antimafia. In questi giorni esce in libreria per Sperling & kupfer un nuovo libro dal titolo «Giovanni Falcone. Trent’anni dopo». Sentivi solo il bisogno di misurarti col trentennale delle stragi mafiose o ci sono ragioni ulteriori che ti hanno spinta a scriverlo?
Marcelle Padovani
In realtà è da qualche anno che penso che bisogna rinverdire la memoria di Giovanni Falcone e i suoi insegnamenti. A spingermi è stato soprattutto quel che è avvenuto nella magistratura negli ultimi anni e nell’opinione pubblica. È stato davvero penoso. Si rischiava di svalutare la stagione che Giovanni ha contribuito a costruire, che in fondo credo sia una delle migliori della magistratura. Poi mi ha chiamato l’editore e mi sono subito messa al lavoro.
C.V.
So che è difficile in poche parole tratteggiare il profilo professionale e umano di Giovanni Falcone senza cadere nel già detto, ma quei venti colloqui faccia a faccia che hai avuto con lui nella primavera del 1991 per la stesura di «Cose di Cosa nostra» sono convinto che rimangono un’esperienza unica che ti rende una testimone preziosa.
M.P.
Bisogna sempre ricordare che Giovanni Falcone aveva un grande senso delle istituzioni, che venivano prima di tutto. Lui detestava il protagonismo dei magistrati. Le rarissime volte che concedeva un’intervista era sempre misuratissimo. Anche quando abbiamo scritto il nostro libro lo è stato. Di lui mi ha colpito subito la sua capacità di autocontrollo, che era assoluta: mai una volta che gli scappasse una parola di troppo o che mi dicesse «te lo dico ma non lo pubblicare«. E questo non è un dettaglio da poco. Diceva solo quello che sapeva di poter dire. E così ragionava da magistrato: i processi li faceva solo sui fatti che poteva provare. Mai congetture o teoremi. Aveva il culto della prova, alla quale si dedicava con incredibile scrupolo. Una volta chiese a un inquirente mandato ad indagare in Brasile di verificare se su una tal piazza di San Paolo c’erano le tre panchine di legno di cui parlava Buscetta. Non che fosse importante per l’esito dell’indagine. Ma per farsi un idea della credibilità di Buscetta. Si, non tralasciava alcun dettaglio. Poi era davvero infaticabile.
C.V.
Ritieni che quell’eredità sia andata dispersa?
M.P.
No, sarebbe ingiusto dirlo. La maggior parte dei magistrati continua a seguire quel modello. Molti giovani, poi, hanno ricevuto dal suo esempio la spinta a impegnarsi per diventare magistrati e oggi fanno il loro lavoro con grandissima professionalità. Come spesso accade, il problema è generato da una piccola minoranza di magistrati con smanie di protagonismo che finiscono col compromettere l’immagine di un’intera categoria. Una buona parte di responsabilità ce l’hanno anche i media, che tendono a costruire ed enfatizzare la figura del magistrato-star, drammatizzano spesso gli eventi, e non di rado contribuiscono ad alimentare insulse teorie complottistiche. Le notizie bisogna sempre verificarle, altrimenti si alimenta soltanto la disinformazione. Poi Falcone ha contribuito all’ideazione di strumenti normativi straordinari per il contrasto alla mafia. E quelli restano.
C.V.
Torniamo ai vostri incontri del 1991 e, ancor prima, ai passi che li hanno preceduti.
M.P.
Avevo conosciuto Giovanni nel novembre del 1983, ma mi ha fatto penare un bel po’ prima di accettare di scrivere il libro. Si è deciso solo quando ha lasciato la procura di Palermo, prima non se la sentiva. Poi però è stata un’esperienza molto intensa. Per quattro mesi ci siamo visti frequentemente. Sempre a pranzo, al ristorante. Ho riempito venti quaderni di appunti fittissimi. Li ho misurati: messi in pila sono ventidue centimetri! Confrontandomi con lui ho capito che per combattere la mafia non basta demonizzarla. Serve comprenderla. Serve soprattutto capire la sua dimensione sociale.
C.V.
A questo proposito sono curioso di conoscere la tua posizione a proposito dell’ergastolo ostativo che certamente possiamo includere tra gli strumenti di contrasto alla mafia nati dall’approccio pragmatico e strategico di Giovanni Falcone. Che ne pensi in generale, al di là degli aspetti squisitamente giuridici?
M.P.
Io credo che tutti possono cambiare e oggi forse sono venute meno le ragioni che giustificano una rigidità totale nell’applicazione del regime del carcere duro e del «fine pena mai». Già di per sé la galera è un’esperienza straziante. Se non è assolutamente necessario, aggravarla rende lo Stato crudele ed è inaccettabile. Nel corso della mia carriera mi sono trovata a conoscere bene Giuseppe Grassonelli, uno degli autori della strage di Porto Empedocle. È una persona che in carcere ha fatto un grandissimo percorso. Ha studiato letteratura, si è laureato e ha perfino scritto un romanzo, Malerba, che ha avuto un discreto successo in Francia. È profondamente cambiato, eppure non ha mai collaborato. Mi confessò una volta che non lo ha fatto perché temeva per i suoi familiari. Ad esempio, con persone come lui non ha senso accanirsi.
C.V.
In una sua recente intervista ho letto che ti si è definita «corso-trasteverina». Devo dire che mi hai sorpreso e un pizzico deluso. Speravo ti sentissi anche un po’ siciliana! In fondo il tuo legame con la Sicilia è perfino anteriore all’incontro con Falcone, basti pensare al libro-intervista con Leonardo Sciascia «La Sicilia come metafora» del 1979.
M.P.
(sorride) Ho trovato questa formula per scherzo, quando il Presidente della repubblica francese mi ha conferito la Légion d'honneur. Vivo qui dal ’74 e in tanti continuavano a chiedermi se mi sentissi più italiana o più francese. Allora per non far torto a nessuno ho coniato quest’identità corso-trasteverina. In fondo mi corrisponde: in Corsica ci sono nata e cresciuta; a Trastevere ci vivo da quarant’anni. Con la Sicilia certamente ho un rapporto elettivo, mi definirei filo-siciliana. Però lo devo a Sciascia, più che a Falcone che frequentai prevalentemente qui a Roma.
C.V.
Ci vuole parlare del suo rapporto con Sciascia? Un altro gigante siciliano...
M.P.
Sciascia ha segnato un momento fondamentale della mia carriera. Fui molto sorpresa quando accettò di fare queste conversazioni con me. In fondo io ero allora una cronista pressoché sconosciuta e lui fino a quel momento aveva detto di no a tutti. Era un uomo di straordinaria intelligenza e sensibilità, ma da buon siciliano all’inizio si mostrò molto diffidente. Mi osservava. Dopo il primo incontro fatto nella sua campagna racalmutese della Noce – ricordo che sua moglie Maria ci servì dell’ottima pasta con le sarde – ci siamo incontrati sempre nei locali della casa editrice Sellerio, nel pomeriggio. Durante le prime conversazioni lui fu talmente schivo che io fui sul punto di desistere tanto ero scoraggiata. Poi, all’improvviso, la svolta: quando siamo entrati in sintonia è diventato un fiume in piena. Ricordava storie del suo paese, raccontava aneddoti, suggeriva citazioni. Tutto con grandissima intensità. Ne fui molto affascinata. Scherzando, quando rientrai dalla Sicilia dissi a mio marito Bruno (Trentin, ndr) che mi venne a prendere in aeroporto «sei fortunato che ti abbia conosciuto prima di conoscere Sciascia!». Era uno scherzo, ovviamente. Però quell’esperienza a Palermo mi aveva davvero segnata.
C.V.
Possiamo leggere una linea di continuità tra Sciascia e Falcone? Di recente mi è capitato di rileggere insieme «Il giorno della civetta», che data 1960, e il tuo libro scritto con Falcone trent’anni dopo: nel capitano Bellodi, nel suo metodo investigativo, in particolare quando smaschera con l’indagine patrimoniale il capo mafia Don Mariano, mi è sembrato di riconoscere il magistrato siciliano che ha incastrato penalmente i mafiosi provando prima di tutto i loro affari, la circolazione degli assegni e il condizionamento delle attività economiche. E a ben vedere, in un passaggio del libro Falcone non da soverchio peso all’introduzione del delitto di associazione mafiosa con la legge Rognoni-La Torre del 1982 e invece esalta le misure di prevenzione patrimoniale come chiave di volta nel contrasto alla criminalità organizzata.
M.P.
Sì. Sciascia aveva capito tutto. Anche io credo che per Falcone il grande scrittore di Racalmuto fu un maestro.
C.V.
Come vedi oggi il nostro paese?
M.P.
Io credo che l’Italia sia un Paese straordinario. E che per molti versi costituisce un laboratorio che anticipa gli eventi. Molto spesso qui le cose sono avvenute prima che nel resto d’Europa. Tra voi italiani spesso prevale il disfattismo, ma io credo che debbano prevalere i lati positivi. Anche davanti alle emergenze più gravi, le risposte che lo Stato ha saputo dare sono eccezionali. In questo Paese si è combattuto il terrorismo senza mai arretrare rispetto allo stato di diritto, all’estero non sempre va così. Neanche in Francia. Poi davanti alla sfida posta dalla mafia si è prodotta la migliore legislazione del mondo. In entrambi i casi alla fine ha vinto lo Stato. Per una giornalista come me tutto questo è stato tremendamente interessante. Ho scritto dieci libri, per raccontarlo!
C.V.
Di regola concludiamo le nostre conversazioni con un suggerimento letterario.
M.P.
Posso essere autolesionista? Consiglierei al lettore di non leggere i libri pubblicati in occasione di questo trentesimo anniversario. Suggerirei piuttosto un bravissimo scrittore siciliano, Vincenzo Consolo. Il più bravo di tutti.

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