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Barbera, dalle carceri all’impegno civile

Ha passato più tempo in carcere che all’aria aperta. «Proprio così», sorride e sospira. Classe 1955, due figlie, divorziata vent’anni fa, una vita spesa a dirigere i penitenziari di mezza Italia, Rita Barbera oggi sfida gli apparati dei partiti e si candida a sindaco della città. Al suo fianco ha due liste, quella che porta il suo nome e l'altra denominata «Potere al Popolo». Le riesce difficile azzardare un pronostico: «In fondo sono una neofita - spiega -, peraltro mi pare una campagna elettorale così particolarmente indecifrabile da non capirci davvero nulla. Delle idee che ho sentito dagli altri candidati nessuna mi sembra balzana o bislacca. Ma il punto è da chi proviene la proposta, il tasso di credibilità che incarna».
Da poco in pensione, nonna di tre nipoti, Barbera sta mettendo a disposizione del progetto una quota della sua buonuscita: «Non abbiamo finanziatori - spiega -, siamo poveri e facciamo quello che possiamo. Ognuno che fa parte della squadra contribuisce con 50 euro al mese per qualche mese». Quando cercava la sede del comitato elettorale ha trovato un ammezzato nel palazzo dove abitava Giovanni Falcone, in via Notarbartolo: «L’ho interpretato come un segno del destino».
Prima di tre sorelle, è nata nella zona del Policlinico. Madre casalinga, padre commerciante di gioielli. «Non capisco nulla di diamanti, ori, collane, anelli e rubini - sorride - e nemmeno ne compro. Gli unici che possiedo sono quelli che mi ha donato mio padre».
Scuola media all'Alberico Gentili, poi il ginnasio al Maria Adelaide «ma non era il mio ambiente. Io guardavo all'Umberto come al liceo che avrei voluto frequentare perché esprimeva idee che sentivo vicine alle mie». E così trasloca in via Parlatore per il triennio finale. «Le idee progressiste, il mio essere di sinistra sbocciano in quegli anni, gli anni della formazione, quelli delle letture appassionate, della contestazione». A quell'epoca non aveva in mente neanche come possibilità remota che un giorno avrebbe fatto il lavoro che ha fatto. «Ricordo che negli anni Settanta passavo dall'Ucciardone e vedevo la protesta dei detenuti sui tetti e con i lenzuoli reclamavano diritti negati. E avevano ragione!». Erano gli anni della contestazione, cantavano i Beatles, la mafia regnava solida sulla Sicilia.
Poi Giurisprudenza, il matrimonio, due figlie, il concorso vinto nel 1984. A 29 anni con due bambine al seguito di 3 e 6 anni parte da sola per Parma, primo incarico, molta ansia, la paura dell'inadeguatezza, il terrore di non farcela, il senso di vuoto per la mancanza di punti di riferimento. «Mio marito, oggi ex, faceva l'architetto, non poteva trasferirsi. Ma è stato un uomo prezioso in quel momento, mi ha incoraggiato, mi ha sostenuto. Gli sono riconoscente. Ero vicedirettore del carcere, ho scoperto un mondo». Il mondo dietro le sbarre. «Il mio carattere si è forgiato in quell'ambiente». Non nel senso della durezza: «Penso di essere rimasta sempre una persona che non ha mai dimenticato di avere a che fare con uomini sofferenti. Ma sono certamente diventata una decisionista in conseguenza della esperienza professionale».
Dopo le stragi del '92 fu alla guida del penitenziario di Termini Imerese dove erano detenuti imputati di mafia al regime del carcere duro. «Non ho mai avuto paura fisica, mai avuto scorte e mai mi sono preoccupata veramente se non del fatto che magari potessi non essere all'altezza della situazione. Penso di avere fatto antimafia nell'unica maniera possibile: ho sempre fatto il mio dovere, ho trattato i detenuti sempre allo stesso modo. Un equilibrio difficile, fra il compito della rieducazione e quello dell'afflizione, concetti propri del dettato costituzionale». Ogni tanto incontra un ex detenuto: «Capita spesso, sono felice quando li vedo al lavoro, quando scopro che in qualche modo ce l'hanno fatta ottenendo un posto nel mondo».
Sulla gestione amministrativa cerca di introdurre il punto di vista femminile: «Questo è un luogo solo per uomini - spiega -. Se devi uscire con due bambini è un'impresa, se devi posteggiare non ne parliamo. Per questo penso si possa introdurre il parcheggio riservato sotto casa alle donne che partoriscono per 18 mesi». Ha un sogno per Palermo: «Spero che diventi una città che riesca a vivere in armonia». Ma tutta questa battaglia, da donna di sinistra, potava farla in un partito strutturato anziché scegliere la strada più difficile e impervia: «No, era giusto così. Penso che siano state le sovrastrutture di partito a farmi un po’ disamorare da quel tipo di politica».

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