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Meloni e il caso La Russa: «Io non sarei intervenuta»

Il disappunto per le parole del presidente del Senato ora è pubblico: «Tendo a solidarizzare per natura con una ragazza che ritiene di denunciare e non mi pongo il problema dei tempi»

Giorgia Meloni

Le parole di Ignazio La Russa sulla ventiduenne che accusa suo figlio Leonardo di stupro non erano piaciute a Giorgia Meloni. Il disappunto espresso solo in forma privata, ora è pubblico. «Comprendo da madre la sofferenza del presidente del Senato, anche se non sarei intervenuta nel merito della vicenda». E ancora: «Tendo a solidarizzare per natura con una ragazza che ritiene di denunciare e non mi pongo il problema dei tempi». Una presa di posizione non banale, nei confronti di uno dei suoi padrini politici, nella conferenza stampa a Vilnius in cui - più del bilancio del vertice Nato - la premier deve rispondere dello scontro fra governo e magistratura. Uno scontro «presunto» a suo dire, perché «non abbiamo la volontà di aprire un conflitto», precisa, rivendicando però la nota di «fonti di Palazzo Chigi» che giovedì scorso ha suscitato la dura reazione della Anm: «Mi ci riconosco».

Non c’è mai stata l’ipotesi di un passo indietro, giurano parlamentari vicini alla premier. Dal suo punto di vista, è stato l’esecutivo che ha dovuto reagire a un attacco, il “combinato disposto», lo definisce, tra l’imputazione coatta del sottosegretario Andrea Delmastro e il caso dell’indagine sulla ministra Daniela Santanchè. Episodi, soprattutto il primo, di fronte ai quali il capo del governo ha il sospetto che qualche toga faccia politica (quelle Fonti di Palazzo Chigi domandavano retoricamente se «una fascia della magistratura abbia scelto di svolgere un ruolo attivo di opposizione»). Meloni intende richiamare al giusto equilibrio tra poteri, e dentro FdI si fanno accostamenti con i tanti appelli all’imparzialità di Sergio Mattarella, come quello sulla toga che non «è un abito di scena». La premier tira dritto sulla riforma della giustizia, «non contro i magistrati ma con il loro contributo». Chiarendo che la separazione delle carriere «non è un modo per aggredire i magistrati, ma per garantire efficienza e terzietà».

La premier lo mette in chiaro dopo 13 minuti di introduzione sul vertice Nato, rispondendo a 4 domande (sulle 8 totali), di una conferenza tormentata anche dal dolore ai piedi. «È per le scarpe, non mi sono stufata di voi», assicura ai giornalisti. Dopo quasi tre quarti d’ora, la chiude con una smorfia e un «malissimo» catturato dal microfono. I tre fronti giudiziari aperti per governo e maggioranza sono di natura diversa ma si intrecciano politicamente. Sul presunto stupro, Meloni spiega che «bisogna capire cosa è accaduto». L’approvazione del disegno di legge sulla violenza contro le donne, nota, «parla per noi». E le considerazioni su La Russa, si dice in ambienti parlamentari, non sarebbero state un fulmine a ciel sereno a Palazzo Madama.
Il caso Santanchè, invece, «non è da stato di diritto»: «qualcosa non funziona sul piano procedurale», è «un’anomalia che l’indagine non venga notificata al ministro ma a un quotidiano, nel giorno in cui lei riferisce in Aula». Per di più, aggiunge senza citare Il Domani e Carlo De Benedetti, «il quotidiano di un imprenditore che non è nella posizione di fare la morale sui debiti». Lo stesso giornale che oggi racconta di una residenza in Versilia acquistata e rivenduta in un’ora a gennaio da Dimitri Kunz, compagno della ministra, e Laura Di Cicco, moglie di La Russa, con una plusvalenza da un milione di euro.

«Secondo me - afferma Meloni - un avviso di garanzia non determina in automatico le dimissioni di un ministro, a maggior ragione con queste modalità». A sentire gli umori di molti in maggioranza, anche in FdI, non basta a considerare Santanchè blindata. Il caso su cui la premier usa toni più duri è quello di Delmastro. Guarda «con stupore» all’imputazione coatta decisa dal gip di Roma, «una scelta giuridicamente lecita, ma che non avviene quasi mai». Ed è avvenuta «per un sottosegretario, per un atto che rientra anche nell’esercizio del mandato». Nel ragionamento di Meloni, «la terzietà del giudice significa che non deve sostituirsi al pm imponendogli di riformulare l’imputazione quando questi non intende esercitare l’azione penale». Questa, chiarisce, «è sicuramente una questione politica». E sono fuori luogo le «dichiarazioni apocalittiche di esponenti dell’Anm» perché non è una situazione da «guardiani del bene contro il male». (ANSA).

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