Giura sul suo «onore» di non avere mai ricevuto avvisi di garanzia. Né alcun altro tipo di contestazione in 30 anni di attività. Parla «da imprenditrice», premette Daniela Santanché che apre la sua informativa al Senato con una autodifesa tutta all’attacco. Delle pratiche «sporche e schifose» di certa stampa. Delle critiche «feroci», che arrivano da chi «in privato, prenotava tavoli» nei suoi locali. Una vera e propria «campagna d’odio» cui lei ha deciso di porre fine presentandosi in Aula. Anche per evitare di trascinare con sé il governo, schierato in massa al suo fianco sui banchi del Senato.
Ma inevitabilmente il suo caso continuerà ad avere strascichi. E non solo perché alla fine di una giornata non proprio brillante per le opposizioni, il Movimento 5 Stelle ha presentato la mozione di sfiducia nei suoi confronti (che il Pd, dopo qualche tentennamento, ha annunciato di essere pronto a votare). Ma anche perché, nonostante gli strali e l’indignazione, con tanto di richiesta a «tutti i colleghi» di una reazione per non lasciare passare «impunita» l’imboscata del quotidiano Domani, che apre con il titolo «Santanché indagata dai pm», l’iscrizione nel registro degli indagati c’è. Una notizia che di fatto lei non smentisce - anche se dice di «non averla» ricevuta. Va quindi all’attacco del giornale per la scelta dei tempi («si ripetono in piccolo vicende passate della politica italiana») e per aver «snocciolato informazioni» comprese quelle «segrete che nessuno potrebbe lecitamente avere», «mescolando dati noti e altri oscuri senza minimamente indicare alcuna fonte». Ma avvisi di garanzia, di cui il quotidiano - che conferma tutto - non parla, non ce ne sono e comunque, afferma sicura lei, «non cambierebbe nulla». Anzi, ha fatto verificare pure i carichi pendenti, dice sventolando il documento in Aula, e «risulta che non ci sono annotazioni per qualsiasi voglia procedimento nei miei confronti». Carichi pendenti che altra cosa sono rispetto alle richieste di accesso al registro delle notizie di reato nel quale, dicono fonti della Procura di Milano, compare anche il suo nome, non più secretato come accaduto nei primi tre mesi dell’inchiesta.
La Procura ha aperto un’indagine per bancarotta e falso in bilancio su Visibilia, il gruppo di società con cui la ministra, come dice lei stessa con un certo orgoglio in Aula, ha «scritto alcune pagine di successo». Con gli eventi ma anche rivitalizzando «riviste che tutti - dice punzecchiando le opposizioni - più di una volta abbiamo sfogliato». Non cita mai esplicitamente i due reati, pur entrando nel dettaglio delle vicende che hanno portato all’istanza di liquidazione giudiziale per le 4 società del gruppo, che sono tutte, sottolinea più volte, «in risanamento» anche grazie all’impegno di «tutto il mio patrimonio». Tutto regolare anche sul fondo Negma, «ho agito come qualsiasi imprenditore», cercando liquidità. E le accuse mosse da un socio tutt’altro che «un piccolo risparmiatore in lotta contro il capitale» ma un finanziere su cui ci sono «registrazioni telefoniche» che ne dimostreranno «le reali intenzioni». Niente a che vedere, invece, con le vicende della Ki Group, di cui detiene una quota del 5% e che ha a che fare con il padre di suo figlio. Una versione contestata da alcune ex dipendenti, presenti in tribuna in Senato e citate poi da Giuseppe Conte. Se hanno ragione, affonda il leader M5S, allora «Santanché ha mentito al Senato». Ribadendo la richiesta di dimissioni che anche Elly Schlein, alla fine, si dice pronta a votare. Oltre alla rincorsa tra Dem e pentastellati, anche Azione e Italia Viva danno l’ennesima prova di non compattezza. Anzi. A parlare in Aula non sono né Matteo Renzi né Carlo Calenda, ma Enrico Borghi, di Iv. Che non segue la linea «decisa nella riunione dei senatori», come auspicato dal leader di Azione, ovvero «dimissioni» di fronte a risposte non esaustive. Ma Borghi in Aula dice invece che «la valutazione spetta a lei», costringendo Calenda a ribadire la richiesta a Santanchè di «valutare seriamente un passo indietro».
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