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Schifani: «Sì, è stato il nostro padre nobile. Ha fatto un partito anarchico e monarchico»

Il presidente della Regione: «A distinguerlo era il tratto umano. Quando mia moglie stava male mi ha detto: molla tutto, l’aereo privato è a tua disposizione. Il lodo col mio nome lo riproporrei»

Renato Schifani

«A volte scherzavamo e io gli dicevo che aveva fondato un partito anarchico e monarchico. Anarchico perché lui consentiva a ciascuno di noi di esprimersi liberamente, monarchico perché in ogni caso era sua l’ultima parola alla quale tutti ci adeguavamo»: Renato Schifani sfoglia l’album dei ricordi mentre a Palazzo d’Orleans si stanno sistemando le bandiere a mezz’asta. Berlusconi è morto da poche ore e il presidente della Regione mette in fila quasi un trentennio trascorso accanto a lui.

Le chiederò alla fine quando è stata l’ultima volta che l’ha visto. Lei ora mi racconti della prima.
«Risale al 1995, io non ero ancora parlamentare ma mi occupavo già di un dipartimento di Forza Italia e lui era in Sicilia per una iniziativa. Ma la vera prima volta in cui ci siamo confrontati fu quando si stava costituendo la Bicamerale per le riforme, all’inizio del ‘97. Mi prese sotto braccio e mi disse: “Renato, dobbiamo votare D’Alema”. Poi nel 2001 mi volle alla guida del gruppo di Forza Italia e ricordo che al primo intervento, per il voto di fiducia, lui raccolse i complimenti di Fini per la scelta e mi sorrise soddisfatto. Fu un bel regalo».

Ci parli del Berlusconi uomo, non politico.
«Ho imparato da lui l'arte dell'ascolto. Aveva la capacità di non decidere mai in maniera emotiva. Ascoltare e valutare, questo il suo segreto. Che ho fatto mio».

E il ricordo che più di tutti la commuove?
«Nel 2006 eravamo impegnati a fare cadere Prodi. Mia moglie stava male e facevo la spola col Veneto, dove era ricoverata. Lui lo seppe e mi rimproverò del fatto che non ero con lei sempre. E con la sua grande generosità mi disse che il suo aereo privato era a mia disposizione. Sono cose che non si dimenticano».

E quindi se dovesse sintetizzare l’eredità umana di Berlusconi, cosa scriverebbe?
«Non l'ho mai visto arrendersi in una delle sue battaglie ideologiche e politiche. E questo è un grande insegnamento. Io ho fatto mio il motto “vai avanti anche quando pensi sia inutile”. E quando vado a vanti sfidando dissenso e impopolarità, trovo quella forza che lui mi ha trasmesso. A volte era in minoranza ma aveva la forza di imporsi. Penso al predellino (la nascita del Pdl nel 2008 fondendo FI e An, ndr), era stato sempre osteggiato dalla nostra classe dirigente. Una domenica apprendo dalle agenzie che aveva dato il via al progetto parlandone in piazza a Milano all’improvviso. L'ho chiamato e lui mi disse: “Se avessi aspettato voi, non lo avrei fatto mai”».

La volle presidente del Senato
«Sì, e ricordo bene quando me lo disse. Aveva avuto un incontro con la Lega che gli aveva fatto delle richieste. Io mi ero preso una pausa ed ero a Barcellona in vacanza. Ci sentimmo e lui mi raccontò di quell’incontro e di cosa aveva concesso alla Lega. Mi disse: “Ho detto no solo per il Senato, perché voglio che lì vada tu. Perché hai avuto il coraggio, quando non la pensavi come me, di dirlo con compostezza. A volte mi convincevi, altre volte no”. È per questo che per me era come un secondo padre e non mi sono tirato indietro quando c’era da difenderlo dagli attacchi delle toghe rosse».

Ha toccato un punto cruciale dell’era di Berlusconi. Per alcuni un riformista, per altri l’uomo delle leggi ad personam e dei processi.
«Sa quante volte alla fine di cene o riunioni notturne sui problemi del Paese lui diceva che avrebbe continuato con i suoi avvocati? La sua giornata non finiva mai. Aveva grandissima forza. Ecco perché non mi sono sottratto quando si parlò del lodo Schifani, che sospendeva i processi per le alte cariche durante il mandato. Lo rifarei, anche se fu dichiarato incostituzionale».

Lui come viveva quella stagione?
«Ha dimostrato di avere una forza senza precedenti. Ho assistito a volte a sfoghi personali. Si sfogava con me sulla incertezza del suo futuro giudiziario, parlavamo di eventuali ingiuste condanne. Che poi sono avvenute seppure una sola volta. Anzi, il fatto che sia stato condannato solo una volta malgrado decine di processi dà il senso della persecuzione giudiziaria alla quale quest'uomo è stato sottoposto. Credo che qualcuno oggi dovrebbe chiedergli scusa. Ma so che non succederà. L'Italia non ha manifestato il meglio di se stessa sotto il profilo giudiziario nel dar luogo a un accanimento senza precedenti e senza logiche giuridiche. Una parte della magistratura dell'epoca ha lavorato scientemente per impedirgli di fare le riforme che intendeva realizzare. Una per tutte, la separazione delle carriere.

Era questa la riforma che più rimpiangeva?
«Aveva due rimpianti. Voleva portare l’Italia a essere protagonista internazionale, e in parte c’è riuscito. Mentre l’unica riforma che non gli è riuscita è quella della separazione delle carriere. All’epoca c’era una lotta alle toghe rosse e una corrente della magistratura, mi pare Md, che si muoveva come un partito. La riforma non riuscì per il veto di Casini, all’epoca presidente della Camera, e del sottosegretario alla Giustizia Vietti che poi avrebbe fatto carriera al Csm».

Proviamo a tracciare il perimetro della sua eredità politica.
«Berlusconi è nella storia del nostro Paese. Ha creato una classe dirigente della quale sono fiero di far parte, che si muove all'unisono. Attorno al principio della libertà si sono costruiti tutti gli altri valori di Forza Italia. Lo sforzo di tutti noi sarà quello di mantenere fede a questo impegno di Berlusconi. Lui in questo senso non muore. Starà a noi, classe dirigente cresciuta grazie a lui, attuare il suo progetto.

E l’eredità di Forza Italia?
«Rendere il cittadino protagonista delle scelte del paese. Consentendogli col voto di scegliere premier e programma. “Un voto, una scelta di campo”: questo era lo spot ed è pure la sua eredità. Il sistema bipolare, nato con lui, va tutelato. Mai si torni indietro. Così come sull’europeismo, il Partito popolare europeo e il rapporto privilegiato con gli Usa».

Quando l’ha sentito l’ultima volta?
«Il primo giugno. Marta Fascina mi aveva detto che non poteva parlare. Il giorno dopo lui mi ha richiamato. Abbiamo parlato di partito, di coordinatori che in parte voleva rinnovare. Era molto partecipe delle dinamiche organizzative. Gli dissi: “Prenditi cura di te e stai sereno, perché hai creato una classe dirigente forte e responsabile che può lavorare all'unisono e portare avanti i tuoi ideali”. Lui mi disse: “Hai ragione, in effetti da noi ci si vuole bene”. Sono state le sue ultime parole con me. E sono come un testamento. Sì, in FI ci si è sempre voluti bene dinanzi a un padre nobile come lui».

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