Una disfatta da un lato, una faida dall'altro. Queste amministrative di primavera regalano uno scenario mai come stavolta ben definito in termini di equilibrio politico. Con la sola variante di una Lega trascinata in una partita personale giocata a Trapani dall'assessore regionale - a occhio e croce ancora per poco – Mimmo Turano e che, per fortuna del centrodestra, non ha avuto riscontri altrove. Basti guardare al balzo in avanti dei consensi a Catania, pur motivato dall'approdo sotto le insegne del Carroccio di importanti acchiappavoti di area moderata.
Dunque a leccarsi le ferite è ancora una volta un centrosinistra - o fronte progressista che dir si voglia, poco cambia - che dopo aver toccato il fondo sembra aver iniziato a scavare. Perché il vero interrogativo che emerge da questo voto riguarda proprio lo schieramento sconfitto. Da cosa dovrebbe ripartire? Cosa oggi potrebbe e dovrebbe lasciare presagire una svolta, se non a breve, almeno a media scadenza? L'onda lunga del doppio successo Meloni-Schifani sembra affondare le fondamenta più nell'impalpabilità dei perdenti che nei risultati di sei mesi di governo nazionale e regionale.
Aver perso ovunque, aver vinto a Trapani grazie al voto della Lega e senza il simbolo del Pd (beffa ulteriore) per consegnarsi arrendevoli al marchietto del civismo non può essere spiegato solo con quel vento di destra che innegabilmente spira in generale sull'Europa, come testimonia anche il recente voto in Spagna. Continuare ad additare gli altrui «voti di Cuffaro e Dell'Utri» senza avere la capacità di attrarne di nuovi per sé, non solo non paga ma stanca anche come presunto alibi. Interi dibattiti politici e intere campagne elettorali giocati esclusivamente sulla denigrazione dell'avversario, senza alcun lavoro programmatico di base per la ricerca di consenso sono solo foglia di fico ormai ingiallita e raggrinzita. Prematuro forse parlare di effetto Schlein – positivo no di sicuro, negativo forse - ma che il Pd siciliano navighi le procellose acque di costanti dissidi interni non è storia recente. Confidare nel (poco) laboratorio (troppo) sperimentale dell'alleanza con ciò che resta dei Cinquestelle era illusorio alla vigilia e si è rivelato sterile a conti fatti.
Del resto, non ci credevano neanche loro, Conte in testa. Se poi a ciò aggiungiamo la vena moderata – e per questo attrattiva, vedi i casi Cancelleri e Chinnici - che Schifani ha voluto dare alla new age forzista anche per riequilibrare le rigidezze meloniane (ancora una volta ben ripagate, c’è da dirlo, dagli elettori) e che sta progressivamente erodendo il grande blob centrista, mentre sul fronte opposto le bizze da sit com fra Calenda e Renzi hanno ulteriormente isolato il fortino di sinistra, allora lo scenario è chiaro, definito. E, ad oggi, risulta difficile da immaginare mutevole con vista sulle prossime imminenze elettorali.
D'altro canto il centrodestra che canta vittoria non può restare a gingillarsi sul risultato ottenuto. Il caso Trapani è una grana non da poco, che ha impedito l'all in e che andrà inevitabilmente affrontata in sede politica. Il rischio di ingigantirne gli effetti però c'è: impensabile per Schifani limitarsi al benservito a Turano, perché significherebbe ritrovarsi la Lega contro. E l'ex presidente del Senato è da sempre molto incline ai diplomatici equilibrismi di coalizione, anche a costo di ingerire qualche boccone amaro, come successo al momento della formazione della sua attuale giunta.
Che però, con l'abitino della verifica semestrale e per un rilancio ulteriore dell’azione amministrativa non scevra dal plateale immobilismo che da mesi si registra all’Ars, qualche mutamento quasi certamente lo subirà a stretto giro di posta: un ritocco qua e là per rifare il trucco, nascondere qualche smagliatura, rilucidare i mocassini e liberarli da qualche sassolino. Farlo da vincitori è pure più facile. Di certo più della titanica impresa di riconnettersi con gli elettori cui è chiamato l'attuale centrosinistra. Che il malconcio Pd e il declinante M5S decidano o meno di farlo assieme o ognun per sè sarà tormentone che potrebbe paradossalmente distrarli ancora una volta dall’obiettivo primario: mettere insieme i voti per tornare a contare qualcosa.
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