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Per l'elezione di Leone furono necessarie 23 votazioni: il record resiste da 50 anni

La storia delle elezioni del presidente della Repubblica. Nell'assemblea democristiana Fanfani ha la meglio su Moro, ma in aula cade sotto i colpi dei franchi tiratori. Trattative estenuanti per scegliere alla fine il candidato che sette anni prima era stato fatto fuori proprio dai frondisti fanfaniani

Giovanni Leone alla sua scrivania al Quirinale

Questa è la sesta puntata della serie di articoli dedicati alle precedenti elezioni del presidente della Repubblica

Se la vendetta è un piatto che va consumato freddo, quella di Leone su Fanfani fu freddissima: sette anni per prendersi la rivincita sul politico aretino che con le sue manovre gli aveva sbarrato la strada per il Colle nel 1964. La rivincita è quasi un bis dello spettacolo di manovre andato in scena sette anni prima: identico il periodo, quello di Natale, quasi identico il gran numero di votazioni necessarie per arrivare all’elezione (23, due in più del 1971, record ancora insuperato).

In quel dicembre di 50 anni fa bisogna scegliere il successore di Giuseppe Saragat. A Piazza del Gesù il segretario Arnaldo Forlani e i maggiorenti della Dc concordano tutti su un punto: dopo il laico Saragat a salire sul colle più alto deve essere un politico democristiano. Ma la rivendicazione, invece di favorire un clima di concordia, ha l’effetto opposto. Fanfani e Moro, i due «cavalli di razza» del partito, si sono incontrati più volte per stringere un accordo: Fanfani offre a Moro la segreteria del partito in cambio del via libera al Quirinale, ma il suo rivale non è del tutto convinto. L'assemblea dei grandi elettori Dc viene convocata l’8 dicembre, a sole 16 ore dall’inizio delle votazioni in aula. Ha la meglio, a scrutinio segreto, Fanfani. Ma la corsa dell’aretino parte subito con qualche handicap: nella prima gli mancano 40 voti dei grandi elettori Dc, che diventano 55 nel pomeriggio.

I franchi tiratori fanno restare Fanfani dietro al candidato unitario delle sinistre, il socialista Francesco De Martino, votato anche dal Pci. La Dc non riesce a unire il fronte dei piccoli partiti di centro. E così Fanfani sperimenta la triste sorte subita da Leone sette anni prima, infilato dai dissidenti Dc che non lo vogliono al Quirinale e dagli alleati che puntano su altre soluzioni. Dall’ottava votazione la Dc, sfibrata dagli insuccessi, sceglie di astenersi: un trucco per neutralizzare i franchi tiratori. All’undicesima la Balena Bianca torna a riproporre Fanfani, convinto di aver strappato il consenso dei partitini laici. Ma è un nuovo «bagno»: i suoi voti arrivano al punto più alto (393), ma lo fanno restare dietro De Martino. A Fanfani non resta che annunciare il ritiro. Per altre 12 votazioni la Dc si rifugia in un’umiliante astensione. Il Natale si avvicina e come sette anni prima si rischia il nulla di fatto. Il 22 dicembre, alla ventiduesima votazione, le sinistre abbandonano la candidatura di De Martino e fanno scendere in pista Pietro Nenni: confidano che la Dc prenda atto che senza i voti dei socialisti non si va da nessuna parte. Ma la Dc, se vuole mantenere il punto, deve correre ai ripari. Matura in quelle ore la candidatura di Giovanni Leone: Pri e Psdi inseriscono il suo nome in una terna con Paolo Emilio Taviani e Mariano Rumor, che però si defilano subito.

L’assemblea dei grandi elettori Dc, a scrutinio segreto, deve scegliere tra Leone e Moro. La vittoria, di misura, va a Leone, che riceve la notizia a casa, costretto al letto da una bronchite. Il numero esatto dei voti non si saprà mai, perché gli scrutatori bruciarono subito le schede. Il 23 dicembre Leone manca il quorum per un solo voto, fermandosi a quota 503. Il giorno dopo, vigilia di Natale, viene eletto con 511 voti: lo appoggiano democristiani, socialdemocratici, repubblicani, liberali e missini. Una maggioranza anomala, diversa da quella che governa il Paese.

Tra i suoi primi atti lo scioglimento delle Camere, due mesi dopo la sua elezione. I suoi sette anni al Colle finirono più burrascosamente di quanto non siano cominciati: accusato dalla giornalista Camilla Cederna e dai radicali di essere coinvolto nello scandalo Lockheed (accuse mai provate, anzi la Cederna fu condannata per diffamazione e Pannella gli chiese pubblicamente scusa), fu scaricato dalla Dc e costretto alle dimissioni il 15 giugno 1978, sei mesi prima della scadenza del mandato.

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