ROMA. «Questo partito deve diventare di nuovo un luogo di attrazione per chi vuole fare politica. Abbiamo toccato il fondo: ricominciamo dai comitati di quartiere, dalle reti dei cittadini senza piangerci troppo addosso e facendo tesoro della cavolate fatte in passato. Non basta andare in periferia solo in campagna elettorale».
Lo afferma il candidato a Roma per il centrosinistra Roberto Giachetti in un'intervista al Messaggero in cui aggiunge che il commissario del Pd romano Matteo Orfini è «in scadenza» e che «a parte D'Alema», non si è sentito tradito da nessuno. «Ora dobbiamo pensare al futuro, superare il commissariamento e rilanciare la politica», dice Giachetti.
«Già quando ho fatto le primarie ho capito che aria tirava. Eravamo messi proprio male: "a Robe, mi dicevano i nostri iscritti, non sarai mica venuto qui a farci la lezioncina"». «Compresi che bisognava fare una campagna tutta impostata sull'ascolto e con umiltà mettersi a sentire gli umori della città. E questo ci ha consentito di arrivare al ballottaggio».
«Il leit motiv della campagna in buona sostanza è stato questo: 'Peccato che sei del Pd, se no ti votavo. Il Pd ha avuto una responsabilità. Prima con Alemanno, uno sterile consociativismo che ci ha allontanato in particolare dalle periferie: strillavano in piazza e poi chiedevano i posti nei cda.
E poi con Marino. Se oggi giri e pronunci il nome di Marino la gente ti corre appresso. Si capiva come sarebbe finita. E dopo il ballottaggio abbiamo trovato un muro». Smarcarsi dal Pd non è servito: «Ho imposto una linea di assoluta rottura con quel che è accaduto negli anni passati. Liste pulite, facce nuove, rottura con un sistema di un certo tipo».
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