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Sorgi: «Renzi ha vinto le elezioni ma la vera partita ora è dentro il Pd»

PALERMO. Più polemiche che commenti. Da Genova a Napoli, dal Veneto alla Puglia, i risultati delle regionali stanno fermentando e innescando deflagrazioni politiche all’interno del Pd, di Forza Italia e del Nuovo centro destra. Le analisi dei partiti sottovalutano l’allarmante dato dell’astensionismo e si concentrano sui dati dei successi, delle statistiche e dei confronti in attivo, e glissano su débacle e figuracce di singoli candidati.

Nulla di nuovo dopo il voto. Tanto che a cinque giorni dalle elezioni tutti continuano a dire di aver vinto e di non aver perso. «Le elezioni le hanno vinte in tre: Renzi, Salvini e Grillo» chiarisce subito Marcello Sorgi, scrittore ed editorialista de La Stampa, attento osservatore della politica italiana.

Mosse e contromosse dopo il check up elettorale?

«In una partita come questa, con sette punti in palio, chi ne ha presi cinque, come il presidente del Consiglio, non può certamente essere considerato uno sconfitto, anche se il suo partito ha perso voti e s'è allontanato dal clamoroso 40,8 per cento delle Europee del 2013. Salvini e la Lega hanno avuto un boom che va ben oltre la conferma del governatore Zaia in Veneto e cambia il quadro politico. Grillo è al secondo posto in molte Regioni ed è alla terza conferma elettorale per il suo movimento: sarebbe un errore continuare a considerare quello in suo favore come un voto di protesta».

Perché allora nel Pd s'è scatenata una guerra senza quartiere e dagli esiti imprevedibili?

«La guerra era già in corso da tempo, aggravata da due fatti legati alla tornata elettorale: la decisione di Cofferati, Civati (poi usciti dal Pd) e di una parte del partito in Liguria di mettere in pista un candidato alternativo, Pastorino, a quella uscita vincitrice dalle primarie, Paita. E la conseguente sconfitta della Paita ad opera del candidato del centrodestra Toti. Poi c'è stato lo scontro sulla cosiddetta lista degli impresentabili, in cui la presidente dell'Antimafia Bindi ha incluso il candidato governatore della Campania, poi risultato vincente. De Luca dopo la vittoria ha querelato Bindi. Nel Pd siamo alle carte bollate, mentre ancora è in corso la campagna per i ballottaggi dei sindaci».

È il momento giusto per la madre di tutte le scissioni?

«È possibile ma non è deciso. Molto dipenderà da Renzi e dal modo in cui affronterà nella direzione Pd il dopo-voto. Il premier ha fatto circolare l'idea di una resa dei conti con la minoranza interna, basata su un codice di comportamento che prevederebbe che, una volta presa una decisione, in Parlamento ognuno non può fare di testa sua. In altre parole Renzi è convinto che le criticità del risultato siano dipese dalle evidenti divisioni del Pd, che avrebbero vanificato l'effetto positivo dell'attività di governo e delle riforme. I suoi avversari, al contrario, ritengono che proprio i contenuti di alcune di queste riforme, come quella della scuola e quella del Senato, oltre al comportamento che giudicano autoritario del premier verso i dissidenti, alla fine abbiano disamorato l'elettorato di sinistra. Se non si trova un punto di incontro tra queste due posizioni apparentemente inconciliabili, la scissione avverrà. Ma non è detto che tutta la minoranza esca dal Pd».

Cofferati e Civati sono già usciti. Seguiranno Bersani e Bindi? E chi si porterebbero dietro?

«Bersani mi sembra orientato a restare nel Pd. Resta per combattere, convinto che il logoramento di Renzi sia cominciato. Bindi è un caso a parte: non solo perché pretende le scuse da Renzi, ma perché rappresenta nel partito una figura simbolica della stagione dell'antiberlusconismo. Se Renzi e il Pd la trattassero come l'aveva trattata Berlusconi, una parte dell'elettorato si ribellerebbe. Infine non trascurerei il fatto che Rosy Bindi è nel centrosinistra una delle persone più vicine a Mattarella: anche senza prefigurare un intervento pubblico del Presidente, non credo che il Capo dello Stato assisterebbe in silenzio a un linciaggio politico della Bindi, perché ha modo di intervenire, anche riservatamente, con la sua moral suasion».

 Nel centrodestra adesso comanda Salvini?

«Direi di sì. Ha avuto un risultato superiore a qualsiasi aspettativa e ha una narrazione che funziona, anche se con punte inaccettabili su tematiche essenziali come immigrati e Europa. Oltre al Veneto, ha avuto il 20 per cento in Toscana, ha rischiato di far cadere la sinistra in Umbria, è stato determinante per la vittoria di Toti in Liguria. Ma a Matteo Salvini non interessa trattare con le altre componenti del centrodestra, né siglare compromessi. Pensa solo a raccogliere il massimo dei voti e a candidarsi al prossimo ballottaggio con Renzi nelle elezioni politiche, che vorrebbe anticipare al più presto. Un favore che temo Renzi non gli farà».

Meno Grillo e più M5S ?

«Grillo non ha conquistato nessuna Regione, ma c'è andato vicino, e ha stabilizzato la sua presenza in termini elettorali. Anche lui ha un candidato premier che si prepara per le politiche: è Di Maio, giovane, moderato, vicepresidente della Camera con identità istituzionale».

Ma tra lui e Salvini chi ha più probabilità di giocarsi la grande partita con Matteo Renzi?

«Dipende da Berlusconi e da Alfano. Se trovano il modo di accordarsi con Salvini, ma non è facile. Il ballottaggio previsto dall'Italicum, quando ci saranno le elezioni politiche, sarà Renzi contro centrodestra e contro Salvini, che al momento è quello che dà le carte. Altrimenti la spunteranno i 5 stelle».

Revival o canto del cigno per Berlusconi?

«Berlusconi si consola con la Liguria, ma è in declino».

Che radiografia politica scaturisce dai voti ottenuti dai candidati del Nuovo centrodestra di Alfano?

«Alfano, come ministro dell'Interno e come leader del Ncd, è stato il bersaglio quotidiano di Salvini per tutta la campagna elettorale. Finché resta al governo con Renzi, vedo poche possibilità di siglare una pace che al momento nessuno dei due sta cercando. Ci vorrà del tempo. Ma intanto, nel Nuovo centrodestra, c'è già chi comincia a pensare che il tempo della collaborazione con il Pd sia finito, e prima possibile sia meglio tornare all'opposizione».

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