Il colore che domina al solitamente multicolore mercato della frutta e verdura di Jabalya è ora il nero: il nero del fumo, il nero dei detriti sparsi ovunque, dei cadaveri carbonizzati. Le bombe lanciate da Israele hanno provocato almeno 50 morti. Nessuno se le aspettava qui: stamattina il mercato era affollato di gente visto che fornai, negozi e supermercati dopo due giorni di combattimenti sono ormai vuoti. Dopo l’attacco, in attesa delle ambulanze, i corpi delle vittime sono stati prelevati da volontari che hanno scavato fra le macerie in fiamme. I feriti meno gravi sono stati assistiti in abitazioni private. Nella Striscia messa sotto assedio manca di tutto, ma la fuga è ormai impossibile.
Le famiglie che hanno ancora una casa restano chiuse dentro, alcune con i loro morti, senza esporre, come d’abitudine, le insegne a lutto. Le equipe mediche sono allo stremo: i feriti aspettano fuori dagli ospedali, stesi su lettini o anche sulle panchine in attesa di essere ammessi al pronto soccorso. Il ministero della Sanità ha lanciato un appello a chi ha conoscenze mediche di offrirsi volontario. A rendere ancora più drammatica la situazione a Jabalya è la presenza di 20 mila sfollati dalla vicina località di Beit Hanun, al confine con Israele, che hanno trascorso la notte all’addiaccio.
Dopo la strage è stato tutto un fuggi fuggi.
«Alcuni nel quartiere - racconta un testimone - hanno ricevuto messaggi da Israele che dovevamo sgomberare. Anche perché qui a Jabalya non ci sono rifugi: alcuni hanno trovato riparo in garage, altri sono stati ospitati dall’Unrwa. Dopo l’attacco in molti sono andati verso l’ospedale al-Shifa di Gaza City, nella convinzione che non venga bombardato. Sarei dovuto partire anche io ma alla fine ho deciso di restare a casa anche se sento echi di esplosioni in lontananza. Però ho preparato una borsa con tutte le cose importanti: passaporti, carte di identità, il computer e pò di soldi. Mi devo accontentare di 300 dollari: non posso andare in banca perché è chiusa. Il cibo scarseggia e la benzina è finita».
Quello che ora spaventa è l’assedio israeliano a cui pochi sono riusciti a sfuggire e l’imminente ingresso da terra delle truppe israeliane. «Stiamo combattendo animali umani e ci comporteremo di conseguenza», ha avvertito il ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant. Le premesse sono queste.
Un testimone palestinese di 55 anni ha perso la casa, colpita da un raid dell’aviazione ebraica. Viveva al primo piano e ha raccontato che lui e la sua famiglia avevano ricevuto avvertimenti da Israele solo pochi istanti prima che l’edificio venisse colpito. «Abbiamo lasciato la torre solo con i vestiti che avevamo addosso», ha detto, aggiungendo che lui e la sua famiglia ora non hanno più niente e nessun posto dove andare.
Tutti i valichi fuori dal territorio sono chiusi, ad eccezione di quello di Rafah, strettamente controllato dall’Egitto. Non c’è più nessuna via di fuga dall’enclave assediata.
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