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Zaki in aula per il processo, rischia 5 anni: "Liberatemi, detenzione ingiusta"

Brevissima la prima udienza. Sono cadute le accuse di sovversione e terrorismo, il processo riguarda un articolo sulle discriminazioni subite dai cristiani

Una manifestazione di Amnesty International a Bologna per chiedere la liberazione di Patrick Zaki

Pochi minuti in tutto, forse sei. Con pochi secondi a disposizione per protestare la sua innocenza e denunciare l’abuso di 19 mesi di custodia cautelare patiti in fondo solo per aver scritto un articolo. È stata breve la prima udienza di Patrick Zaki, subito aggiornata al 28 settembre, in un processo che in teoria il ricercatore-attivista per i diritti umani dovrebbe affrontare a piede libero ma in cui rischia altri tre anni e cinque mesi di carcere per «diffusione di notizie false» a causa di un articolo sulle discriminazioni dei cristiani nell’islamico Egitto.

Tutto vestito di bianco, in camicia, larghi pantaloni e scarpe da tennis, lo studente egiziano dell’università di Bologna è stato fatto entrare ammanettato nell’angusta gabbia degli imputati al terzo piano di uno dei due palazzi di Giustizia di Mansura, la città sul delta del Nilo dove è nato 30 anni fa. Oltre ai suoi ormai iconici occhiali e barba, Patrick oggi - 14 settembre - aveva i ricci capelli raccolti in un codino e ha salutato a mani forzatamente giunte il padre George, la sorella Marise e una dozzina di altri parenti, attivisti e amici con cui ha comunicato a gesti furtivi. Un saluto anche ai due diplomatici italiani venuti dal Cairo per monitorare l’udienza assieme a due colleghe di Germania e Canada, intervenute su iniziativa italiana. Una presenza-pressione analoga a quella esercitata in tutte le precedenti udienze sul rinnovo della custodia cautelare dal febbraio dell’anno scorso.

Patrick ha bevuto a fatica da una bottiglietta, ha scartato e mangiato un dolciume fattogli arrivare dalla sorella. Poi si è alzato e ha iniziato quasi a scalpitare, come ha continuato a fare con le braccia dietro la schiena davanti al giudice monocratico e due cancellieri mentre la sua principale avvocata, Hoda Nasrallah, perorava la sua difesa: ormai è accusato solo di diffusione di notizie false e quindi va scarcerato subito visto che per questo reato la custodia cautelare è di soli sei mesi, un terzo di quelli già passati finora in prigione. Con un poliziotto a fianco, uno alle spalle e almeno otto altri sparsi per la sala assieme a uomini della sicurezza in borghese a tenere a bada con occhiate gli obiettivi dei telefonini, Patrick ha risposto «non ho commesso questo crimine» alla domanda del giudice se avesse pubblicato notizie false. Con piglio battagliero, anche lui ha denunciato di essere stato in carcere troppo a lungo, visto che ora non gli vengono più mosse le accuse di istigazione alla sovversione e al terrorismo sulla base dei fantomatici dieci post di un account Facebook di controversa attribuzione (ma la svolta deve ancora essere appurata dai suoi legali nei prossimi giorni).

Il giudice si è ritirato per quasi un’ora. Poi, poco dopo le 15, uno dei poliziotti in divisa bianca e baschetto nero è sbucato da una porta annunciando il rinvio. «28 settembre, 28 settembre», hanno urlato parenti e attivisti rivolti alla piccola grata di un furgone blindato azzurro, dove erano sicuri di avere intravisto Patrick: è stato questo l’unico modo per fargli sapere quando dovrà ricomparire davanti alla seconda corte della Sicurezza dello Stato per i reati minori di Mansura, che prima della sua in tre ore aveva macinato 155 udienze nella maggior parte dei casi solo col sommesso passaggio di carte da avvocati al giudice.

La kafkiana impenetrabilità della giustizia egiziana, ancora nel tardo pomeriggio, ha lasciato nell’incertezza se Patrick fosse tornato a dormire per terra nel famigerato carcere cairota di Torah o in uno di Mansura. Con l’aggiornamento comunque che è stato evitato «lo scenario peggiore», quello di una «sentenza inappellabile» emessa già dopo la prima udienza, ha commentato Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, riferendosi a una possibile condanna a cinque anni (di cui 19 mesi già scontati) che poi solo il presidente Abdel Fattah al-Sisi potrebbe revocare.

 

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