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Theresa May premier a Downing Street, l'eccentrico Johnson agli Esteri

LONDRA. Un equipaggio con diverse donne sul ponte di comando, ma anche con non poche sorprese, per pilotare la nave britannica fuori dall'Ue e fuori dall'era Cameron fra gli scogli del dopo-Brexit. Theresa May è diventata il primo ministro del Regno Unito, seconda inquilina a Downing Street, 26 anni dopo Margaret Thatcher.

Il suo impegno prioritario - giura - è per la giustizia sociale, per costruire «insieme una Gran Bretagna migliore», benigna non solo «con pochi privilegiati»: non senza accettare «la sfida» del divorzio da Bruxelles con «una visione positiva» sul futuro dell'isola «nel mondo».

L'inizio è scoppiettante: squadra di governo rivoluzionata rispetto a quella di David Cameron, con l'eccentrico Boris Johnson - un brexiter a tutta prova, ma anche sostenitore della linea morbida verso i cittadini Ue residenti nel regno - risuscitato al timone del Foreign Office. E con il prudente 'europeista' Philip Hammond che passa dagli Esteri alla guida del Tesoro, in veste di cancelliere dello Scacchiere, al posto del campione del liberismo George Osborne, escluso eccellente.

Per molti, l'esordio è quasi da controfigura di Angela Merkel, l'omologa tedesca con la quale - prima che con chiunque altro - dovrà negoziare nei prossimi mesi il destino del suo Paese e dell'Europa. Intanto - mentre il 'continente' reagisce annunciando un vertice Renzi-Hollande-Merkel a Roma ad agosto per preparare le sue strategie - i mercati rispondono benino.

A Londra, il passaggio di consegne è avvenuto nel rispetto scrupoloso delle tradizioni. E ha avuto ovviamente il culmine a Buckingham Palace, dove la regina Elisabetta ha sbrigato in una ventina di minuti la pratica delle dimissioni di Cameron, premier numero 12 dei suoi 64 anni di regno; poi ha accolto per il 'baciamano' di rito (in effetti una semplice stretta di mano, con genuflessione accennata) la numero 13. E infine ha «invitato» la neo premier a formare il suo team.

Un incarico a cui nella realtà dei fatti Theresa May stava lavorando da un paio di giorni e che in serata ha già partorito la nomina dei ministri e ministre più importanti: oltre a Johnson e Hammond, spicca la rampante Amber Rudd, che diventa la seconda lady del governo, ereditando dalla stessa May l'Home Office, ossia il dicastero dell'Interno.

Per il resto, accanto all'attesa promozione di varie figure femminili, la cifra è quella di un mix attento fra portabandiera di Leave e Remain per ricompattare il partito dopo le divisioni referendarie, ma soprattutto di un cambio generazionale all'indietro: via i 50enni del gruppo di Notting Hill di Cameron e Osborne; recupero di alcuni veterani, più vicini per età alla May, come David Davis o Liam Fox, altri due euroscettici di ferro. Il primo va al neonato dicastero per la Brexit, a cui spetterà la gestione dei negoziati con Bruxelles.

Il secondo al Commercio con l'Estero, fondamentale sullo stesso fronte. Mentre alla Difesa resta il 'Remainer' Michael Fallon, garanzia di fedeltà alla Nato rispetto alle aperture di Johnson alla Russia di Vladimir Putin. In generale il quadro è quello di un taglio più netto del previsto con Cameron. A dispetto degli applausi che i Comuni avevano tributato in mattinata al premier uscente in un  question time di congedo consumatosi nel fair play generale sotto gli occhi della moglie Samantha - «l'amore della mia vita», l'ha più tardi apostrofata David lasciando Downing Street con un abbraccio familiare - e i tre figli, Nancy, Arthur e Florence.

Le ovazioni si sono sprecate, con qualche lacrimuccia nel gruppo Conservatore. E non è mancato l'onore delle armi del leader dell'opposizione laburista, Jeremy Corbyn, ancora in piedi in attesa della resa dei conti di casa sua.  «Sono stato il futuro anch'io, una volta», ha concluso con filosofica autoironia Cameron, l'uomo che ha voluto e perduto il referendum del 23 giugno, chiudendo a nemmeno 50 anni una carriera politica di cui non ha rinunciato a rivendicare i meriti: dall'uscita dalla crisi, alla crescita dell'economia, al rilancio di un'occupazione magari precaria, ma a livelli record, alle riforme introdotte (adozioni, matrimoni gay, scuola) per «migliorare la vita delle persone, che è la cosa che conta».

«Lascio un Paese più forte», è il suo testamento. Ripetuto in dichiarazioni che aggirano peraltro, in un silenzio che non può non fare rumore, l'eredità storica della Brexit. Eredità che spetta ora alla sessantenne May affrontare e in qualche modo giudicare. Una donna dal profilo non proprio innovativo in partenza, dopo sei anni da inflessibile ministro dell'Interno e paladina del pugno di ferro sull'immigrazione, ma che con i primi passi a Downing Street sembra preannunciare novità di non poco conto.

Sostenitrice non entusiasta di Remain al referendum di giugno, promette, tanto per cominciare, di voler attuare ora «la sfida» della Brexit senza ripensamenti: convinta di poterne fare «un successo». Una promessa, se le nomine di Johnson o di Davis significano qualcosa, che dimostra di voler attuare in tempi neppure tanto lunghi.

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