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L'Uk scricchiola: la Scozia ora punta al referendum secessionista

LONDRA. Le cornamuse scozzesi hanno intonato anche stanotte il loro canto, ma questa volta il grosso delle 'truppe' britanniche - inglesi in testa - non le ha seguite. Il miracolo di tanti campi di battaglia non si è ripetuto nella sfida referendaria sulla Brexit: la Scozia va - solitaria o quasi - per la sua strada, con un 62% di voti filo-Ue scrutinati collegio per collegio, mentre l'Inghilterra (Londra esclusa) si affidava nelle stesse ore alle sirene dell'euroscetticismo.

E ora il Regno Unito, che con il referendum del settembre 2014 era riuscito a trattenere la gente del nord nei suoi confini, rischia davvero di sfaldarsi dopo secoli di storia. A Edimburgo l'opzione di un nuovo referendum secessionista «è sul tavolo».

Di più, è molto probabile, come ha sillabato, chiaro e tondo, la first minister Nicola Sturgeon, leader degli indipendentisti dello Snp. Ma anche in Irlanda del Nord c'è chi non ha gradito affatto l'esito della consultazione sull'Ue: e piuttosto che adeguarsi, strizza l'occhio a Dublino. Difficile immaginare un modo per districare il garbuglio.

Il Regno Unito, nel suo insieme, ha detto no all'Europa. Ma è un no imposto dalla maggioranza inglese, che da sola rappresenta circa i tre quarti della popolazione complessiva. Oltre che da un 52% di gallesi. In Ulster, e soprattutto in Scozia, il vento è spirato in direzione opposta.

«La Scozia, come Londra e l'Irlanda del Nord, ha votato largamente per rimanere nell'Ue e non sarebbe democratico trascinarla fuori contro la sua volontà», ha attaccato Sturgeon, in abito rosso da battaglia, a poche ore dalla proclamazione ufficiale d'un risultato accolto con «rammarico». «Sono assolutamente determinata a garantire, secondo le mie responsabilità, il rispetto della volontà popolare degli scozzesi», ha rincarato, annunciando una prima riunione di emergenza del governo di Edimburgo per adottare una serie di passi imprecisati. Ma al di là delle schermaglie iniziali, l'avvertimento a medio termine è inequivocabile: un referendum bis, per la separazione dei territori settentrionali dal resto della Gran Bretagna, in queste condizioni «è altamente probabile».

 

Non c'è da attendere che il momento in cui Londra - entro due anni secondo alcune tesi, entro il 2020 secondo altre - avrà completato le procedure di attuazione dell'uscita dal Club dei 28, sulla base del verdetto di quello che tecnicamente è stato un referendum consultivo. Tanto più che il sì alla permanenza nel Regno Unito, accordato di misura da una maggioranza di scozzesi meno di due anni fa, si fondava sulla premessa d'appartenere appunto a un Paese agganciato all'Europa.

 

Il j'accuse della lady di ferro scozzese si è completato con una stoccata diretta al governo Tory e «all'establishment di Westminster», additati per aver stretto il regno nell'austerity e averlo poi esposto all'alea di un aspro scontro sulla Brexit, che minaccia di terremotarne definitivamente l'economia.  A Belfast il governo nordirlandese d'unità nazionale, formato da unionisti protestanti e repubblicani cattolici nel rispetto degli storici accordi di pace del Venerdì Santo, viceversa tace. Ma il vicepremier Martin McGuinness, capofila dei repubblicani dello Sinn Fein nella compagine, non esclude almeno in linea teorica di rivendicare a questo punto il diritto a un 'contro-referendum', un voto di riunificazione dell'Irlanda.

 

Uno scenario che da Dublino il premier della repubblica, Enda Kenny, s'affretta a smentire seccamente, per non alimentare le tensioni. Citando semmai «questioni più serie» da affrontare alla luce della Brexit: prima fra tutte la garanzia d'un confine aperto nell'isola verde che gli slogan anti-immigrazione degli euroscettici inglesi rischiano di mettere in discussione a costo di riesumare un casus belli.

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