PECHINO. Tsai Ing-wen, la prima donna presidente e «single» di Taiwan, tra le più potenti nel mondo di lingua cinese, ha giurato, e con il discorso di insediamento ha già «scontentato» Pechino, mandandola su tutte le furie.
Avvocato di 59 anni, paladina dei diritti dei gay e amante dei gatti, ha creato lo «Tsainami» che al voto di gennaio ha spazzato via il Partito nazionalista (Kmt), tradizionalmente vicino alla «Cina continentale», e ha dato per la prima volta al filo-indipendentista Partito democratico progressista una maggioranza schiacciante in parlamento.
Dopo il giuramento di ieri, nel discorso inaugurale di 30 minuti dinanzi a 20 mila persone radunate fuori dalla sede presidenziale, ha parlato della necessità di spingere l'economia fuori dalle secche della recessione e ha menzionato l'importanza di due decenni di scambi in crescita con l'altra parte dello stretto, senza mai citare il «One-China principle», il principio di «una sola Cina», fondamentale per Pechino, che considera l'isola una provincia «ribelle».
Tsai ha parlato con toni pacati di rispetto «dei riconoscimenti congiunti e delle intese concluse» nei «colloqui del 1992», auspicando lo sviluppo dei rapporti tra le due parti «nel rispetto della Costituzione della Repubblica della Cina» (vale a dire di Taiwan) e della volontà dei suoi 23 milioni di abitanti.
La risposta «cinese» non s'è fatta attendere: «Determinazione assoluta» nel bloccare qualsiasi forma d'indipendenza e denuncia della «ambiguità» sui rapporti bilaterali. «L'indipendenza resta la principale minaccia alla pace nelle relazioni», ha tuonato la nota dell'Ufficio degli Affari di Taiwan del Consiglio di Stato, il governo di Pechino. Tsai non ha fatto «esplicito riconoscimento al Consensus del 1992 (e al principio di »una sola Cina«, ndr) e delle sue implicazioni, e nessuna proposta sui modi concreti per assicurare un pacifico e stabile sviluppo dei rapporti».
Risposta scontata, in linea con «l'ispezione» appena fatta a Hong Kong da Zhang Dejiang, presidente della Assemblea nazionale del Popolo cinese e numero tre del Pcc, che ha stroncato le velleità indipendentiste dell'ex colonia britannica. Ma Ying-jeou, il presidente nazionalista uscente, ha sempre rispettato i «principi» e i 23 accordi siglati, accettando lo storico incontro a Singapore con il presidente Xi Jinping.
Quest'ultimo a chiare lettere ha definito la questione «riunificazione» come non rinviabile a tempo indeterminato. Le pressioni di Pechino su Taiwan si sono intensificate da gennaio per capire le posizioni della neo presidente, fino alle manovre militari di maggio di sbarco guarda caso sulle coste della provincia di Fujian, frontaliere dell'isola ribelle.
Tsai, tuttavia, ha mostrato abilità nell'uso delle parole: lasciando Pechino insoddisfatta, ha evitato «provocazioni» sullo Stato indipendente, adoperando toni accettabili per la comunità internazionale e - a denti stretti - anche per la Cina. Non è forse un caso se in serata, un commento sul Quotidiano del Popolo, organo del Pcc, ha puntualizzato che «non solo non ascolteremo ciò che dice (la presidente, ndr), ma vedremo anche quello che fa».
Come dire: la valuteremo dai fatti. Due indicatori potrebbero segnalare il livello di malumore di Pechino: l'assemblea Mondiale della Sanità, che inizierà lunedì a Ginevra, a cui Taiwan partecipa come osservatore dal 2009 col nome di «Taipei cinese», e la sentenza sull'arbitrato dell'Aja, che vede le Filippine favorite su Pechino in merito ai contenziosi nel Mar Cinese meridionale, le cui temperature «politiche» sono sempre più alte. Le mosse dell'amministrazione Tsai, soprattutto sull' arbitrato, influenzeranno i rapporti triangolari con Cina e Stati Uniti, col rischio di nuova instabilità nell'area.
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