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"In Libia solo bombardamenti, ma non servirà a sconfiggere l'Isis"

«Gli Stati Uniti non vogliono inviare truppe di terra in Libia, a maggiore ragione non lo faremo noi. Per contenere l'Isis, solo per contenerlo, si procederà con i bombardamenti e l'impiego di forze speciali. Ma questo già avviene». Carlo Jean, il generale di Corpo d'Armata che negli anni Novanta fu consigliere militare del presidente della Repubblica Francesco Cossiga, definisce «verosimili» le indiscrezioni - diffuse ieri dal New York Times - sull'esistenza di un piano messo a punto dallo Stato Maggiore statunitense per un intervento militare alleato, Italia compresa, che punta tutto sui raid in territorio libico. Esattamente come in Iraq e Siria.

Almeno nella provincia libica, nella "wilaya" mediterranea del Califfato, basteranno le incursioni aeree per sconfiggere le truppe jihadiste?
«Per far fuori un'organizzazione come l'Isis, che è molto diffusa sul terreno, occorre la fanteria. La strategia dei raid, che è politicamente del tutto ragionevole, non punta a distruggere lo Stato Islamico in Libia ma a impedirne un'ulteriore espansione. Soprattutto, per far sì che non giunga nella mezzaluna petrolifera che si trova nel bacino della Sirte».

Sinora, le postazioni dell'Eni sono rimaste al riparo da attacchi. Solo un caso?
«Le installazioni petrolifere, intanto, dispongono di un corpo di guardia che conta circa 20 mila uomini. Inoltre, le attività estrattive Eni nel bacino dell'Elephant (ferme da maggio, ndr) e in quello del Wafa, che si trovano nella parte occidentale della Tripolitana, sono protette da tribù con cui sicuramente l'azienda ha stretto accordi di collaborazione. Non per nulla, l'Eni riesce ancora a tirare fuori grosso modo 200 mila barili al giorno. E il gas affluisce regolarmente nell'impianto di Mellitah».

Nel "Paese del Caos", potere reale in mano a clan tribali e milizie?
«Sia l'Egitto con la Francia, sia gli Stati Uniti hanno intese con formazioni locali. Gli Usa, ad esempio, le hanno con le milizie di Misurata, all'incirca 40 mila uomini e 700 mezzi corazzati. Se questi non hanno schiacciato l'Isis a Sirte, è solo perchè hanno paura di indebolirsi nei confronti del loro competitore principale che resta il generale Khalifa Haftar con la sua Operazione Dignità (Karama, ndr)».

Gli Stati Uniti si ritrovano così a sostenere i "misuratini", da un lato, e il governo di Tobruk con il generale Haftar, dall'altro. Strano, no?
«Sostanzialmente, tengono i piedi in più staffe... Il generale Haftar, d'altronde, è anti-islamista e fa tutto il gioco degli Usa. Non dimentichiamo, peraltro, la presenza del gruppo jihadista di al-Nusra a Bengasi o nella stessa zona la Brigata Abu Salim».

Sembrava già tutto pronto per una missione italiana nella sponda sud del Mediterraneo con la partecipazione di Esercito e Marina. Adesso, "chiamata" solo per l'Aviazione?
«Tutte quante invenzioni! In qualunque azione militare, bisogna sempre stabilire l'obiettivo politico da raggiungere. Non significa nulla dire che mandiamo in Libia 3 o 5 mila uomini. Al limite, sono numeri buoni da giocare al Lotto. Piuttosto, è necessario capire cosa vogliamo fare. Se vogliamo contenere l'Isis, bastano forze speciali e raid aerei quando capita. Oltre a consegnare un po’ di armi alle milizie locali».

Inutile fissare obiettivi più ambiziosi?
«Per distruggere lo Stato Islamico occorre una vera e propria operazione militare, che è difficilissima. Sinora, peraltro, ci siamo mascherati dietro la foglia di fico del governo di unità nazionale libica che non si farà mai. O, se nascerà, non servirà a nulla perchè mancherà persino della forza per chiedere aiuto internazionale. Sarà soltanto un terzo governo (oltre quelli di Tobruk e Tripoli, ndr) e non disporrà di fanterie per attaccare l'Isis».

Su chi puntare, allora?
«La forza di contrastare il Califfato sembrano averla solo il generale Haftar, le truppe di vigilanza delle infrastrutture petrolifere e le milizie di Misurata. In subordine, anche quelle di Zintan che si trovano a ovest di Tripoli e sono alleati di Haftar. I clan tribali, invece, contano meno di una volta nello scacchiere libico».

Perchè?
«Tranne nel Fezzan, i clan hanno un peso minore perchè l'urbanizzazione ha fatto sì che i legami si allentassero progressivamente. Gli stessi anziani delle tribù non comandano come una volta, perchè i giovani non li ascoltano più. In parallelo, si sono rafforzati i legami locali. Tant'è che esiste la milizia di Misurata, non quella dei Warfalla che pure è la tribù principale in quell'area della Tripolitania».

Il nostro premier, Matteo Renzi, ha escluso «un'invasione italiana» e gli stessi Stati Uniti sembrano più prudenti. Quanto ha pesato il veto appena ribadito dal governo filoislamista di Tripoli?
«Se si dovesse decidere per l'operazione militare, questa parte lo stesso. Il ministro degli Esteri del governo di Tripoli (Aly Abuzaakouk, ndr) continua a ripetere che gli stranieri verrebbero considerati invasori solo per apparire come un patriota che difende la dignità del Paese. Ovvio che un intervento esterno compatterebbe molti soggetti attorno agli islamisti, ma questo ha poca importanza. Gli Stati Uniti sono già entrati in azione, quando hanno deciso di agire. Ad esempio, in novembre, vennero usati gli "F 15" provenienti dalle basi inglesi per uccidere con un bombardamento quello che si riteneva allora fosse il capo libico dell'Isis».

Da Sigonella, droni pronti a partire. Un modo per attirare terroristi contro Sicilia e Italia?
«No. Gli attentati in Europa sono sempre stati realizzati con elementi radicalizzati che vivono qui. Chi viene dall'esterno, è visto come un corpo estraneo. In Sicilia, poi, s'è mai chiesto perchè le Brigate Rosse non si sono mai manifestate? Semplicemente perchè la Sicilia è occupata dalle cosche che non vogliono nessuno tra i piedi. La stessa cosa capiterà adesso».

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