PALERMO. «L’attentato di Istanbul dimostra che la Turchia è lontana da una situazione di stabilità interna. E che il Paese continua ad essere bersaglio di attacchi terroristici, la cui matrice in alcuni casi rimane da chiarire». Valeria Talbot, responsabile dell’Osservatorio Mediterraneo e Medio Oriente per l’Istituto Studi Politiche Internazionali-Ispi, invita alla prudenza nell’attribuzione delle stragi in Turchia. Quella di ieri, come altre in passato: «Sebbene le autorità locali — spiega la ricercatrice — parlino di un attentatore di origine siriana, che farebbe pensare a un collegamento con lo Stato islamico, l’attentato non è stato ancora rivendicato. La matrice jihadista è stata, invece, attribuita ai precedenti fatti di sangue avvenuti a Suruc in luglio e ad Ankara in ottobre, nonostante in quest’ultimo caso siano state avanzate molteplici ipotesi e diversi aspetti rimangono da chiarire».
Una sola certezza: questo, per la Turchia, è il terzo attentato in sei mesi. Cosa si nasconde dietro la strategia del terrore?
«L’intervento nel conflitto siriano e ancor di più la partecipazione alla coalizione anti-Isis a guida statunitense a partire dallo scorso luglio hanno esposto sempre di più la Turchia ad attacchi di matrice jihadista. In questi anni il territorio turco è servito come corridoio di passaggio per migliaia di foreign fighters diretti in Siria e Iraq e le autorità hanno avuto un atteggiamento "morbido" nei confronti di traffici illeciti alla propria frontiera con la Siria,subendo però allo stesso tempo infiltrazioni di cellule jihadiste. Da più parti si considerano gli attentati, da Suruc in poi, come una conseguenza della stretta del governo di Ankara e della guerra al terrore lanciata sia nei confronti dei militanti jihadisti sia contro il Partito dei Lavoratori del Kurdistan, il PKK, che ha ripreso lo scontro armato con lo Stato turco dopo una tregua durata due anni».
Molti turisti tedeschi tra le vittime, ieri. Un caso?
«La zona di Sultanahmet è il cuore turistico di Istanbul frequentato da innumerevoli gruppi di visitatori stranieri. A differenza di quanto hanno fatto in molti, non darei adito ai collegamenti tra l’attentato e la nazionalità di molte delle vittime. Fra questi, peraltro, ci sono anche cittadini turchi».
Sangue a Istanbul, esattamente quattro mesi dopo Ankara. Il premier Erdogan «punito» per essersi allineato alla Nato, dopo le ambiguità del passato?
«Dopo il lancio della coalizione anti-ISIS a settembre del 2014, gli Stati Uniti hanno esercitato costanti pressioni nei confronti di Ankara perché aderisse in maniera attiva anche attraverso la concessione delle sue basi militari. Anche dopo l’intervento all’interno della coalizione, comunque, Ankara e Washington non sempre si sono trovate sulle stesse posizioni e sono state allineate nell'azione nei confronti del Califfato. Quello che emerge è innanzitutto una divergenza di priorità e interessi. Mentre per gli Stati Uniti la priorità in Siria è la lotta allo Stato Islamico, per la Turchia gli obiettivi principali sono far cadere il regime di Bashar al-Assad, da un lato, e dall’altro ridurre l’influenza di curdi impedendo la formazione di un’autonomia curda ”de jure” nel nord della Siria».
Tra turchi e russi, un nemico comune: il Califfato. Possibile, a maggiore ragione adesso, che i due Paesi riscoprano la via del dialogo per contrastare la minaccia-terrorismo?
«Al di là di una blanda convergenza sulla lotta al Califfato, le posizioni dei due Paesi sulla Siria sono confliggenti. Il sostegno russo al regime di Damasco e l’intervento militare in Siria hanno modificato i rapporti di forza in campo e anche il ruolo dei principali attori esterni coinvolti nel conflitto siriano. L’attiva presenza russa ha comportato perdite di posizioni sul terreno da parte dei gruppi sostenuti da Ankara. Allo stesso tempo ha ridato una chance negoziale al regime siriano, opzione contraria agli interessi e alla politica turca in Siria. La lotta al terrorismo potrebbe riportare i due paesi alla via del dialogo, sebbene dopo l’abbattimento del jet russo da parte turca permangano innumerevoli ostacoli da superare, non da ultimo le sanzioni economiche imposte da Mosca».
Gli attacchi-kamikaze sono la risposta dello Stato Islamico ai raid delle coalizioni nemiche e alla sconfitta di Ramadi. Davvero, però, i «tagliagole» sono in ritirata?
«Fin da quando l'organizzazione dello Stato Islamico è salita alla ribalta dell'attenzione in Occidente ha dimostrato di essere in grado di portare avanti una strategia molto più complessa della semplice reazione ad eventi politici o bellici all'interno della regione. In questa fase è indubbio che, almeno nel contesto iracheno lo stato islamico stia patendo sconfitte significative. Ramadi, in effetti, ha segnato una perdita importante sia militare sia di immagine. Nel contesto siriano invece la situazione è più complessa, frutto anche delle difficoltà nel venire a capo dei contrastanti interessi geopolitici dei vari attori regionali e internazionali».
Gli esiti incerti del conflitto aumentano il fenomeno degli «Inside Fighters»: centinaia di miliziani stanno già facendo ritorno nelle città europee. Questa e', per noi, la peggiore delle minacce?
«Il ritorno di individui che hanno militato all’interno sia delle formazioni afferenti allo Stato Islamico, sia degli altri gruppi dell’opposizione siriana al regime di Bashar al-Assad, è una questione molto delicata poiché tocca aspetti politici, sociali e di sicurezza nazionale. La grande partita sarà riuscire a controllare e calibrare gli strumenti di prevenzione, controllo e repressione. Al tempo stesso, però, non bisogna dimenticare che gran parte di quanto stiamo vivendo oggi nasce nel rinsaldarsi di due grandi linee di crisi. Una è quella geopolitica, che richiede un intervento puntuale degli stati se veramente si vuole dare una ricomposizione e stabile al quadro mediorientale. La seconda riguarda gli equilibri sociali e la capacità di proporre modelli di realizzazione individuale e di un futuro appagante per quanti, invece, hanno ritenuto che questo passasse per la militanza jihadista».
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