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Accordo in Libia, Arpino: l’Isis ora punta ai pozzi petroliferi ma Tripoli non ha armi

PALERMO. Alla conferenza internazionale sulla Libia promossa a Roma l’accordo per un governo di unità nazionale, che dovrebbe essere firmato mercoledì prossimo, sembra più vicino. «Ma le incognite restano molte», commenta il generale Mario Arpino. «Si tratta di un passo in avanti che giunge tardivo. Ma per una vera stabilizzazione della Libia, dovremo attendere ancora a lungo. Le mosse di Francia e Inghilterra rischiano di minare il ruolo guida che intende assumere il nostro Paese», avverte l'ex capo di Stato maggiore della Difesa.

Generale, i termini dell’accordo sono soddisfacenti?
«L'accordo annunciato a Tunisi qualche giorno fa è giunto a sorpresa: evidentemente era in corso una trattativa segreta tra le due principali fazioni moderate che erano insoddisfatte dell'accordo portato avanti dall'inviato dell'Onu, Bernardino Leon. L'intesa annunciata da Martin Kobler, suscita quindi qualche interrogativo: presto capiremo se l'accordo muove a partire dalle basi poste dalle Nazioni Unite, o si tratta invece di un'intesa stipulata extra moenia a Tunisi e fondata su nuovi punti di convergenza».

In attesa di sciogliere il nodo, c'è motivo di essere ottimisti?
«Se si trattasse soltanto di piccoli aggiustamenti, potremmo salutare l'accordo con un certo grado di soddisfazione. Anche se fosse un patto tra i moderati dei due governi, sarebbe senz'altro un passo in avanti. Meglio tardi che mai: inutile nascondere che se ci si fosse mossi prima, ci si sarebbe risparmiati molti dei problemi che incombono sull’intesa».

Qual è il limite della soluzione individuata dall'Onu?
«Pesa una forte incognita: le armi continuano ad averle quelli che non concordano. Difficilmente le tribù saranno disponibili a prendere ordini da un esecutivo disarmato, rinunciando così a traffici lucrosi dai quali traggono ampi benefici. A breve la Banca centrale libica che finanzia le fazioni esaurirà i fondi a disposizione: vedremo in quale maniera riuscirà a districarsi il nuovo governo».

Quanto influisce su questa accelerazione, l'avanzata dell'Isis sul fronte libico?
«Scossi dalle bombe russe, i jihadisti hanno fatto armi e bagagli e hanno spostato il loro baricentro in Libia. Non si tratta però di una fuga, ma di una revisione dei piani fondata su una precisa strategia. Gli uomini del Califfo puntano ai terminali petroliferi per intercettare nuovi finanziamenti e mirano a creare un diversivo in Tunisia, dove sono probabilmente pronti ad aizzare la guerra civile. Il blitz a Sabrata non va in questo senso sottovalutato: la città ha sempre pullulato di estremisti. Si stima che dalla Tunisia provengono circa 8mila foreign fighters: se dovessero riuscire a infiltrarsi, c'è l'alto rischio che la Tunisia possa diventare una nuova Siria».

L'Italia si candida a guidare la missione Onu, secondo presupposti che non prevedono per ora impegno militare. Francia e Inghilterra tuttavia sembrano pronte ad azioni belliche piuttosto consistenti. Il quadro può ulteriormente complicarsi?
«Si tratta di fughe in avanti che come al solito sono intraprese a detrimentoi del nostro Paese. Sembra piuttosto chiaro che l'Isis è l'alibi che consente a molti attori in campo di agire a proprio piacimento. Tutto il lavorio intorno a Siria e Libia è coperto da tre grandi foglie di fico».

Di che cosa si tratta, esattamente?
«Innanzitutto dell'Isis stesso: è davvero per tutti un nemico, oppure no? Bisogna infatti chiedersi quali siano i reali obiettivi della coalizione araba formata da al-Sisi a Sharm el Sheikh, e quali siano i veri intenti di russi, turchi e americani. L'impressione è che ciascun Paese si avvalga della guerra al Califfo per perseguire i propri interessi personali in totale autonomia».

E la seconda foglia di fico?
«La fantomatica responsabilità di proteggere studiata dall'Onu nel 2006 non si è mai trasformata in una risoluzione del Consiglio e non è mai stata recepita in nessun ordinamento statuale delle 192 nazioni. Eppure Sarkozy si avvalse di questo principio nel 2006 per entrare a gamba tesa in Libia. Un precedente che ha generato nel tempo pesanti conseguenze: chi potrebbe mai sfilarsi da interventi che vengono ammantati delle vesti di un'azione umanitaria? Un altro comodo alibi per fare ciò che si vuole».

E veniamo al terzo punto.
«Il nostro Paese si è finora mosso con una certa abilità: Renzi ha scelto di adottare in Siria un basso profilo giustificando questa scelta con l'idea di volere assumere in Libia un ruolo guida. Anche in questo caso, abbiamo subordinato la nostra eventuale azione alla creazione di un governo unitario e alle decisioni dell'Onu. Ma ora che queste due riserve si approssimano ad essere sciolte, il nostro governo non potrà più tirarsi indietro: il nostro Paese è chiamato ad assumersi grandi responsabilità in un momento molto difficile, in cui le azioni di disturbo di inglesi e francesi rischiano di crearci seri problemi».

Non esclude quindi un intervento militare del nostro Paese in Libia?
«Sarà bene che il governo attenda quanto più tempo possibile, per scongiurare questo rischio. Occorre aspettare che la Libia raggiunga un certo grado di stabilizzazione, se davvero si punta a un'operazione di peace-keeping. Viceversa non ci sarebbero alternative: fare peace enforcing significa fare la guerra».

Che cosa manca per una vera stabilizzazione della Libia?
«A oggi ci sono in Libia duecento fazioni armate contrapposte ai civili di un governo unitario che è ancora di là da venire perché dovrà essere approvato dall'Onu e dal nuovo parlamento. Pensare a una stabilizzazione del Paese è in questo momento come sfogliare un libro dei sogni. I tempi dell'eventuale consolidamento di un quadro così complesso sono ancora molto lunghi: l'unico margine di intervento consiste perciò nel tentativo di tagliare i fondi alle fazioni armate che sfruttano i proventi petroliferi e quelli dell'immigrazione. O paradossalmente, in quello di incrementarli. Dare nuove provviste alla Banca centrale libica, potrebbe consentire di orientare i favori di talune fazioni verso il nuovo governo centrale. Il denaro gioca un ruolo fondamentale: distribuire le risorse in modo oculato, potrebbe spingere le tribù a riconoscere l'autorità del nuovo governo centrale».

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