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Amorosi: Omar è un simbolo, la Jihad non si fermerà

«Il mullah Omar è una figura simbolica, come lo è stato Bin Laden. Pure i simboli contano nella lotta al terrorismo, ma al Qaeda è ancora in piedi malgrado il suo leader sia stato ucciso. E i talebani non spariranno, anche se il mullah è stato eliminato!». Per la settima volta, o giù di lì, dall’Afghanistan arriva l’annuncio della morte dell'emiro Mohammed Omar. Anche se adesso la notizia fosse vera, ciò non significa — sottolinea Massimo Amorosi, docente di diritto Internazionale e non proliferazione degli armamenti all’Università «Link Campus» di Roma — che è «scoppiata la pace» in quel martoriato Paese. Amorosi aggiunge: «Il mullah Omar ormai aveva perso la propria influenza, soprattutto tra i combattenti più giovani, e non era più l’unico leader dell’insurrezione. Da diverso tempo, infatti, uno dei gruppi più pericolosi è la rete Haqqani con base nel nord del Waziristan».

Un nome, poco più. Perché tanto mistero attorno a quello che dal '96 al 2001 fu il «condottiero» dell'Emirato Islamico dell’Afghanistan?

«In effetti, non si sa molto del mullah Omar e le informazioni su di lui scarseggiano persino fra i comandanti talebani. Non si sa con precisione quando è nato, né dove. Con tutta probabilità nella provincia afghana di Kandahar, o in quella di Uruzgan. In ogni caso, pare che dopo il 2006 non abbia avuto alcun ruolo attivo nell'organizzazione delle offensive talebane. Ripeto: la sua leadership è simbolica e si spiega solo con il suo comportamento rispettoso delle regole islamiche. Non ad un tratto specifico della sua personalità».

Decisivo l’incontro con Osama bin Laden, l’esule saudita che creò al Qaeda. Presenza ingombrante, per un capo incontrastato come il mullah Omar?

«Il sodalizio con bin Laden inizia per il mullah Omar dopo l'arrivo del leader di Al Qaeda dal Sudan in Afghanistan nel maggio del 1996. Fu un’alleanza di comodo, un matrimonio di interessi. Bin Laden aveva scelto quel Paese per strutturare la sua organizzazione e pianificare le sue iniziative. Il mullah Omar gli garantì questa base operativa, anche a costo di essere oscurato da una figura carismatica quale certamente era Osama bin Laden».

I leader carismatici passano, qaedisti e talebani restano. Come mai?

«Il terrorismo, per il modo in cui s’è evoluto, non ha leader riconosciuti com’eravamo abituati a concepirli fino a poco tempo fa. Oggi, è un fenomeno fluido e molto dinamico che fa soprattutto leva sull’iniziativa personale e improvvisata di individui non organizzati. Solo comprendendo la natura fluida ed eterogenea di queste realtà, possiamo combatterle meglio».

Questo vale anche per il Daesh, lo Stato Islamico?

«Sì, certamente. La scomparsa dalla scena di Abu Bakr al Baghdadi non coinciderebbe con la fine del Califfato. Per il messaggio che diffondono, mirato alla radicalizzazione dei singoli, questi gruppi vanno avanti anche senza i loro capi storici. È significativo che, nell’azione di contrasto al terrorismo, i nostri servizi di sicurezza siano innanzitutto interessati al reclutamento via web: il problema con cui dobbiamo fare i conti non è rappresentato dai leader, ma dai potenziali jihadisti arruolati su Internet. Per nulla casuale che, proprio su questo, Italia e altri Paesi europei abbiano recentemente approvato leggi al riguardo».

Almeno in passato, qualcuno aveva visto nel mullah Omar un possibile interlocutore nei negoziati per la pacificazione dell’Afghanistan. Una pia illusione?

«Il mullah Omar poteva essere un interlocutore, come possono esserlo altri. Importante è individuare interlocutori credibili e non tutti lo sono. Soprattutto, però, dobbiamo sempre ricordare che quel Paese ha una natura tribale. Non abbiamo quindi a che fare con movimenti omogenei. È necessario inserirsi con prudenza nel complesso gioco dei clan, muovendosi nelle pieghe della loro realtà sociale e culturale».

Stesso discorso vale altrove...

«Sì, lo stesso discorso vale per l’Iraq o per la Libia che infatti sono esplosi rispettivamente dopo la fine di Saddam e Gheddafi. Eliminati loro, la situazione geopolitica non è migliorata, anzi. Queste, per dirla con gli americani, sono le ”lezioni apprese” da cui dobbiamo trarre insegnamento per il futuro».

Gli Stati Uniti, intanto, sembrano avere rinunciato al loro ruolo di «gendarme del pianeta». Meglio stare lontani da Kabul, come da Baghdad e Tripoli?

«In Afghanistan, gli Usa si sono sostanzialmente disimpegnati provocando un riorientamento delle politiche strategiche delle nazioni di quell’area, ma anche qualche timore. È il modello su cui scommette Obama: creare in qualche modo un nuovo equilibrio regionale, sganciando Washington da oneri eccessivi nella gestione di aree geopolitiche complesse come quella mediorientale».

Cioè?

«Mi riferisco, per esempio, al recente accordo con l’Iran sul programma nucleare, che è coerente con la visione del presidente americano ma a cui si oppone la dirigenza politica di Israele. Bisogna riconoscere a Barack Obama una buona dose di realismo, ma dobbiamo verificare quale impatto a lungo termine avranno le sue scelte strategiche».

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