Tante, troppe saracinesche chiuse, ma ci sono evidenti segnali di resilienza, quantomeno nel settore turismo, anche se, più che da aziende gestite da siciliani, arrivano da imprenditori stranieri o provenienti da altre regioni. È il quadro – con più ombre che luci - sulla demografia d’impresa nelle città, tracciato ieri da Confcommercio in scala nazionale e declinato a livello territoriale dal nostro giornale, con numeri che parlano da soli: in Sicilia, tra il 2012 e il 2023, nel complesso, quindi in tutti i comuni, sono spariti più di 6.000 negozi al dettaglio e 1.250 attività di commercio ambulante. Tra i centri più penalizzati dalle crisi economiche che si sono susseguite nell’ultimo decennio c’è Palermo, dove sono «evaporate» quasi 1.700 attività mentre Agrigento e Trapani ne hanno perse, rispettivamente 327 e 215.
Tutti in negativo pure i rimanenti capoluoghi, con Caltanissetta a quota -123, Catania a -808, Enna a -57, Messina a -477, Ragusa a -175 e Siracusa a -125, ma vanno male anche grandi città come Marsala e Gela, dove l’ammanco di esercizi ammonta, rispettivamente, a 174 e 126 unità. Una moria che ha portato la densità commerciale dell’Isola da 11,8 a 9,6 negozi per mille abitanti. La Sicilia, però, assieme a Sardegna e Puglia, è quella che perde meno commercio e guadagna più turismo rispetto ad altre regioni. A testimoniarlo il fatto che, negli 11 comuni sopraelencati, l’incremento riguardante alberghi, bar e ristoranti è pari a 948 unità, di cui oltre un terzo a Palermo.
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