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Censis, De Rita: consumi in calo, stiamo tornando alla sobrietà tipica dei nostri nonni

PALERMO. Chiaroscuri. Nel «Rapporto sulla situazione sociale del Paese», presentato ieri dal Censis, un' Italia che esalta e deprime. Il presidente dell' istituto di ricerca, Giuseppe De Rita, descrive le ombre - «una nazione in letargo, nel limbo, in cui le singole persone preferiscono adagiarsi nell' esistente vivendo in rapporto con il proprio corpo, tra tatuaggi e telefonino» - ma anche le luci: «In modo quasi sotterraneo sta cambiando il Made in Italy. Era il bell' oggetto disegnato dal grande stilista. Oggi, invece, è trainato dalla gastronomia e dall' agroalimentare, dalla conquista del primo posto nell' esportazione dei vini come dalla straordinaria capacità di fare logistica alimentare e vendere il "brand" nazionale in tutto il mondo. Così è, anche se fino a Expo nessuno se n' era accorto».

Gli italiani «nel limbo» hanno perduto il piacere del rischio. La lunga crisi economica ha prodotto una radicata e diffusa sfiducia nel futuro?
«Sì. E neppure nel futuro lontano, ma anche in quello prossimo. Basti pensare a quanto stiamo risparmiando per mettere i soldi in posti di pronto utilizzo, cioè in banca o sempre più nel "cash" che si teniamo in casa. Abbiamo paura che possa capitarci qualcosa, quindi teniamo i soldi lì e non acquistiamo magari un Bot aventi o trent' anni».

La propensione al risparmio come segnale di insicurezza. Questo, però, non è sempre stato un tratto caratterizzante del nostro Paese?
«Negli anni Novanta e nei primi anni Duemila, no. Altrettanto, nell' età ruggente degli anni Sessanta e Settanta. Allora, consumavamo più di quello che risparmiavamo. Adesso, siamo tornati a una cultura "da scheletro contadino" della società italiana che, poi, si realizza in valori di sobrietà appartenenti ai nostri nonni».

Altra parola -chiave del Rapporto Censis è «ibridazione». La ripresa, in una terra di forti individualismi, passa dalla capacità di fare squadra?
«Piuttosto, direi che passa dalla capacità di fare "ars combinatoria". È il caso, ad esempio, del gruppo di giovani o dei tre, quattro, amici che realizzano una start-up. Ciò avviene soprattutto nel digita le. L' ibridazione sta proprio lì, nel mettere insieme un consumo banale come gli spostamenti in motorino per farne una piccola azienda che affitta sul telefonino scooter a ore. Sappiamo combinare le cose. Questo non significa, però, che facciamo davvero squadra perchè alla fine vince sempre il piccolo imprenditore, anche nella start-up».

Tempo di grandi cambiamenti, anche senza Jobs Act. Dobbiamo cominciare a prendere confidenza con il termine «workaholic», l' ubriacatura da lavoro fatta di occupazione nei festivi e magari senza straordinari retribuiti?
«Il mercato sta cambiando da cinquant' anni. Adesso, stiamo tentando di risistemare tutto con il Jobs Act che, però, si occupa pur sempre di lavoro dipendente. L' Italia, invece, è un Paese di autonomi. Muta tutto, siamo in una fase di frammentazione. Salario e orario, quindi, sono le prime cose che saltano e, d' altronde, erano strumenti tipici della battaglia del primo sindacato per fare crescere la classe operaia. Oggi, è tutto diverso».

Tra le luci (e le ombre) d' Italia, il turismo. Un settore in crescita, almeno allo stato attuale. Durerà anche dopo Expo e Giubileo?
«Il Giubileo, probabilmente, sarà per qualcuno una delusione. Non mi aspetto un flusso di pellegrini pari al 2000, sia per il modo in cui è stato concepito da questo Papa ma anche per la paura del terrorismo. Il turismo italiano è cresciuto e sta crescendo in forme tali che esulano dai grandi eventi. Abbiamo oggi 33 milioni di visitatori e per metà sono stranieri. Stanno aumentando le presenze "normali", non quelle straordinarie. Quindi, non enfatizzerei l' importanza del Giubileo o di Expo».

La metà della popolazione italiana vive in quella che avete chiamato «armatura urbana di livello superiore», cioè nelle città da Roma a Palermo e Catania. Questa concentrazione aumenterà nei prossimi anni. Un problema o un' opportunità?
«Questo è tutto da vedere. In Italia, però, l' armatura urbana non è stata mai una cosa di grande successo. Veniamo da grande delusioni, sin dagli anni Cinquanta quando abbiamo cominciato a parlare di aree metropolitane e cultura urbano -industriale. Purtroppo, nella riforma degli assetti s' è rimandato tutto alle città metropolitane: magari un fatto importante per la rinuncia alle Province, ma noi continueremo a vivere "distesi" nel territorio e non accentrati».

Con Germania e Giappone, siamo una delle tre nazioni più anziane del mondo. Cresce il bisogno di cure, ma anche la sensazione di inadeguatezza del sistema sanitario?
«Il sistema sanitario nazionale ha la stessa età del Rapporto Censis. È nato alla fine degli anni Sessanta e io l' ho sempre sentito abbastanza vicino. Il nostro sistema non è così male come si pensa perché, essendo universale, garantisce tutti. Al Pronto soccorso non hai bisogno della carta di credito come, invece, avviene in altri Paesi. Eppure, proprio perché universale, ha scarsa reputazione tant'è che i cittadini preferiscono spendere in proprio e la spesa sanitaria privata cresce più di quella pubblica. O, ancora, rispondono che vorrebbero pagare meno tasse anche se questo significa avere meno servizi».

Neppure l' Istruzione pubblica ha un alto indice di gradimento. Sarà per questo che gli Atenei perdono immatricolati, o la ragione sta nel fatto che i giovani hanno deciso finalmente di uscire dal «parcheggio universitario»?
«È un fenomeno complesso, difficile da spiegare in poche parole. Certo è che non esiste un sistema capace di garantire "l' entrata della vocazione". I nostri Atenei sono costruiti non in base alle vocazioni dei ragazzi, ma in funzione degli interessi dei docenti. Il giovane non sente l' Università come utile per sè. Quindi, non la frequenta più».

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