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Caleca: «Con le coop un’economia sana, ma caccino le mele marce»

L’assessore regionale all’Agricoltura coautore di un libro. Ieri ha disposto accertamenti sulle aziende tolte a Matteo Messina Denaro

PALERMO. Proprio ieri, da assessore regionale all’Agricoltura, ha dato mandato perché gli uffici verifichino se tra le aziende beneficiarie di contributi pubblici figurino anche quelle riconducibili al boss Matteo Messina Denaro. Ma Nino Caleca, da avvocato e da autore – col presidente regionale di Legacoop, Elio Sanfilippo - di «Mafia e coop rosse. Misteri, intrighi e depistaggi» vede proprio nelle cooperative l’opportunità di creare un’economia sana e schierata contro Cosa nostra. Perché, a dispetto dei fatti romani, «è la stessa struttura della coop, che in Sicilia è uscita indenne dai processi, a rendere difficilissime le infiltrazioni mafiose».

Il libro si concentra sulla lunga vicenda giudiziaria dalla quale, però, le coop sono uscite indenni. La sinistra si è invece frantumata.

«Da un punto di vista giudiziario, è stata esclusa l’ipotesi di un rapporto organico tra coop rosse e mafia. È più difficile affermarlo, però, sul piano economico e politico, dove restano delle ombre. La Lega delle coop non è stata capace di guidare da protagonista la lotta alla mafia. Non solo, le ipotesi accusatorie giudicate ora prive di fondamento sono state usate per anni da una parte della sinistra contro la sinistra».

Lei da avvocato ha seguito tutto il processo. C’è qualcosa di particolare nelle coop che permette loro di resistere maggiormente alla mafia?

«Da una parte c’è stato un cambiamento in Cosa nostra. Bernardo Provenzano, con Angelo Siino, caldeggiò l’ipotesi di inquinare le coop rosse e di stringere accordi con loro. E il tentativo serviva per spingere i dirigenti del Pci a non appoggiare i magistrati nella lotta a Cosa nostra. Operazione bloccata però da Totò Riina, che non voleva ”comunisti” e ”persone oneste”. Dall’altra, è la struttura sociale della coop che rende tecnicamente complicato imporre il pizzo e stringere accordi perché chi la compone non dispone del patrimonio e ai vertici le persone cambiano continuamente, diventa difficile così trovare referenti».

Il quadro che emerge dall’inchiesta romana, però, ci dice tutt’altro: la mafia si sarebbe infiltrata proprio nelle coop. Non è una contraddizione?

«No, la struttura sociale della coop reagisce positivamente solo se è inserita in un movimento più vasto di cambiamento. In una fase di crisi come questa si finisce per cercare il profitto immediato e gli anticorpi che la cooperativa ha in sé, ciò che rappresenta, possono venire meno. La coop è una forma diversa di imprenditoria, un progetto sociale, che ha il dovere di contrastare corruzione e mafia».

La vicenda al centro del libro fu anche un’occasione di sviluppo mancata?

«Le coop non capirono i rischi e i nuovi comportamenti di Cosa nostra. I sospetti insinuati dall’inchiesta divennero un’arma politica, determinando un problema morale che di fatto ha tolto l’egemonia nella lotta alla mafia alle coop. Quando si stipularono i primi protocolli antimafia, nati nelle coop, si finì per delegare ad altri organismi, come Confindustria. Si è perduta allora l’occasione di essere avanti nella lotta a Cosa nostra. Il libro tenta di dire ”riprendiamoci la scena, alleiamoci, perché possiamo essere i primi in quest’ambito”».

C’è anche un quadro degli anni ‘90. Vede analogie con oggi?

«Ci sono degli elementi simili, ma gli scandali di oggi nascono in mezzo alla crisi economica. Tangentopoli, invece, fu avvertita come una speranza di cambiare, di crescere. Oggi, non ci sono prospettive e l’accordo col malaffare diventa quasi inevitabile anche per le coop, come emerge a Roma. C’è un clima di accettazione di questa logica terribile. E invece bisogna fare i conti all’interno, eliminare le mele marce e non farsi schiacciare, anche perché il numero dei lavoratori nelle coop è in crescita».

Le difficoltà sembrano esserci sempre state: lo stesso Pio La Torre attaccò duramente le coop agricole di Bagheria.

«Non era un problema di mafia, ma di moralità. Perché quando la coop accetta troppo le regole del mercato, alle quali pure deve sottostare, rischia di cadere in un sistema che la mina. E La Torre aveva ragione».

Cosa vi ha spinto a ricostruire questa vicenda?

«Dobbiamo capire cosa sia accaduto allora. La nostra è una lettura di parte e servirebbe l’analisi di uno storico, viste le conseguenze provocate sul piano politico. Il libro guarda al futuro per tentare di ricucire ciò che fu strappato».

Quali furono i depistaggi?

«Quello di Vito Ciancimino. Abbiamo voluto allegare i suoi verbali perché le persone possano conoscerli. Risalgono al tempo in cui l’ex sindaco si propose di collaborare coi pm e contengono un disegno pericolosissimo, che per fortuna non ebbe credito. Ciancimino dichiarò che La Torre era stato ucciso dalla sinistra, che ne aveva i ”mezzi”. Affermazioni che avrebbero potuto stravolgere la vita del partito».

Le spaccature arrivarono comunque dopo.

«Sì, ma bisogna ricucirle. Le coop devono continuare nella loro azione antimafia e metterla in primo piano, come quando gestiscono beni confiscati, per esempio. Perché sottostanno alle leggi economiche, ma con esse è possibile ottenere un profitto sociale».

 

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