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Esce "Human Rites", il secondo album del musicista Beercock

Esce oggi Human Rites, il secondo album di Sergio Beercock, in arte Beercock, giovane cantautore nato nel nord dell’Inghilterra e cresciuto in Sicilia, dove tutt’ora vive. Musicista poliedrico, brillante e visionario, Beercock, in questo suo secondo lavoro, decide di abbandonare le vesti classiche del cantautore voce e chitarra che aveva indossato in Wollow(2017) e porsi come vera e propria guida di un viaggio spirituale e visivo nel quale l’ascoltatore si lascia circondare e vincere da sonorità nuove e ipnotizzanti. Voce. Corpo. Rito. Questi i tre elementi che compongono la spina dorsale dell’intero album, tre punti cardine su cui l’artista ha voluto costruire un disegno musicale capace di far coesistere al suo interno molteplici contaminazioni: dal gospel al soul, passando per l’elettronica e l’heavy metal. Come avvenuto per Wollow, anche Human Rites è nato e si è sviluppato sotto l’ala protettiva e sapiente di Fabio Rizzo e 800A Records.

Partiamo dal titolo, perchè Human Rites?

Per prima cosa perché mi divertiva il fatto che rimassero rites(riti) e rights(diritti) permettendomi di parafrasare un po’ alla Cesare Beccaria la traduzione: “dei riti umani”. Nulla di prettamente mistico o esoterico. Mi piaceva l’idea del rito nella sua accezione più ampia: una compresenza di persone, oggi diremmo assembramento, un’azione collettiva di esseri umani guidata da una figura, in questo caso io, che ne organizza le modalità. In una performance teatrale o in un concerto, ognuno ha il suo ruolo, come in un rituale e il risultato finale è frutto di un agire comune, ed è questo che ho voluto omaggiare.

Si può definire un concept album?

Musicalmente certamente sì. Quando con Fabio Rizzo elaborammo questa idea del “Voce. Corpo. Rito.” tutto è diventato improvvisamente chiaro e lampante, come un’esplosione. Un album quasi del tutto privo di strumenti musicali se non quelli più “umani”: la voce, il battito di mani, body percussion e così via. Tutti i suoni sono stati molto processati, ho lasciato che venisse “tradito” il più possibile il suono originale, ma tutto proviene dalla voce e dal beat.

A giudicare dai tre singoli pubblicati “See you around the bend”, “Feel your fall” e “My day becomes an hour”, gli stili che hanno influenzato l’intero album sembrano molteplici, cosa puoi dirci a riguardo?

C’è, in effetti, una grande coesistenza di stili, tutti riconducibili ai miei primi ascolti musicali di quando ero bambino. Da piccolo sono cresciuto a pane e Marvin Gaye, la soul music e il gospel sono molto presenti in questo album, ma non solo. Ci sono sfumature, neanche troppo velate, di black metal. Feel your fall, per esempio, ne è completamente impregnata, ma al contempo ha la tendenza verso l’alto che è la caratteristica che contraddistingue la musica soul e il gospel. E poi tutta la ricerca e l’esaltazione del tribale e del primitivo. È un album dionisiaco, coesistono sogno ed ebbrezza come in un rito, appunto.

Nel 2017 è uscito Wollow, il tuo album d’esordio, altamente influenzato dalla musica folk tradizionale britannica. Human Rites trasuda maturità, ricerca del particolare, un’elaborazione anche mentale più ampia. In cosa differiscono questi due album?

Differiscono in tutto. Wollow è una fotografia di Sergio a 25 anni. Una compilation di tutto quello che avevo prodotto da quando ho cominciato a scrivere fino a quel momento. I brani presenti in Human Rites, invece, sono tutti stati scritti nell’arco di questi tre anni, non sarebbe stato coerente inserire qualcosa riconducibile all’adolescenza. È stato concepito per essere un album del 2020 ed essendo tale non può prescindere da questa grande peste che stiamo vivendo che però cade a pennello, perchè è un disco corale, collettivo, in un momento in cui bisogna rivalutare l’idea stessa di collettività, di individuo e di distanza. Per farla breve, Wollow è l’opera di un cantautore, Human Rites è l’opera di un performer.

Com’è cambiato, invece, Sergio Beercock?

È cambiato il mio ruolo. Mi spiego, fino ad ora Sergio era il musicista che cantava quello che lo circondava, metteva in musica i suoi sentimenti e le sue sensazioni. Con Human Rites, invece, è nata la necessità di definire un personaggio che io possa interpretare durante una performance. Una figura attraverso la quale sia possibile veicolare un messaggio, come se l’album stesso fosse un manifesto. E un manifesto, a sua volta, ha bisogno di un’icona. Quale icona migliore del mio cognome? BEERCOCK. Tutto in maiuscolo. L’hanno solo 13 persone in tutto il mondo, è perfetto!

È possibile acquistare Human Rites in esclusiva sul sito www.beercock.bandcamp.com. Dal 18 dicembre, invece, su tutti gli altri store digitali e nei negozi di dischi.

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