ROMA. Sul dizionario inglese «maverick» si legge «Cane sciolto, anticonformista, irregolare», ma nel linguaggio dei cowboys il maverick è il "vitello non marchiato" o il «puledro allo stato brado». Mai definizione si sarebbe attagliata meglio a Tomas Milian, cubano di nascita, americano di passaporto, naturalizzato italiano per una scelta di vita e di cuore, spentosi ieri nella sua casa di Miami a 84 anni anche se chi gli era vicino racconta che avrebbe voluto morire a Roma. Nato a La Havana il 3 marzo del 1933 da un generale dell’esercito di Machado, poi degradato e costretto al suicidio dal golpista Batista, Tomas Quintin Rodriguez Miliàn scappa da Cuba a 24 anni per tentare la fortuna in quella che diverrà la sua prima patria adottiva, l’America, iscrivendosi all’accademia teatrale di Miami per poi trasferirsi a New York e debuttare a Broadway.
Ma è nel varcare l’oceano come un vero emigrante (con appena 5 dollari in tasca come raccontò nella sua bella autobiografia "Monnezza amore mio" scritta con la complicità di Manlio Gomarasca) che Tomas Milian scopre il cinema e diventa davvero attore. Al festival di Spoleto del '59 lo nota Mauro Bolognini che lo ingaggia nel cast de «La notte brava» e da lì nel 1960 strappa a Franco Cristaldi un contratto con la Vides che per sei anni lo vedrà lavorare con i migliori registi italiani, da Visconti a Lattuada, da Zurlini a Maselli, fino a Pasolini.
Bello, aitante, bruno e dai tratti inconfondibili, Milian è un autentico «scugnizzo» dal carattere ribelle: che mostra in breve la sua insofferenza per il doppiaggio a cui è costretto, per le paghe troppo basse, per i ruoli (a suo dire) secondari. Eppure è difficile non ricordarlo in opere del calibro de «I delfini» e "Gli indifferenti" di Citto Maselli o «Il bell'Antonio» di Bolognini e perfino nel fugace passaggio in «La ricotta» di Pasolini. Sono davvero anni ruggenti per il nostro cinema e quel giovanotto con l’aria da «bello e dannato» volteggia sui set, sempre inquieto e sempre in cerca di se stesso: da «Un giorno da leoni» di Nanni Loy a «la banda Casaroli» di Vancini. Sta di fatto che, alla fine di un burrascoso rapporto, Milian lascia Cristaldi e cerca fortuna in Spagna (complice la familiarità con la lingua) per poi tornare in Italia da eroe improvvisato del western all’italiana: il clamoroso e inatteso successo di "Faccia a faccia" con Gian Maria Volonté (regia di Sergio Sollima, 1967) gli spalanca una nuova carriera. Titoli come «Se sei vivo, spara» di Giulio Questi, «La resa dei conti» ancora di Sollima, fino a «Tepepa» di Giulio Petroni sono ormai storia del cinema di genere e in questo affresco Tomas Milian diventa l'eroe rivoluzionario dei peones messicani, portavoce ante litteram del vento del '68 sul grande schermo. Se ne accorge Carlo Lizzani che lo chiama (di nuovo insieme a Volonté) per "Banditi a Milano" (1968); lo capisce Liliana Cavani che lo vuole insieme a Pierre Clementi in «I cannibali» (1970); lo consacra Sergio Corbucci con «Vamos a matar, companeros» (1970).
A metà degli anni '70 rinasce ad una nuova vita artistica con un altro genere di narrazione popolare, poi ribattezzato "poliziottesco". Qui incontra due maestri del «B Movie» come Umberto Lenzi e Lucio Fulci; qui diventa Nico Giraldi con il celebre berrettino per «Squadra antiscippo» (1976) e poi si mette la parrucca di Er Monnezza per «Il trucido e lo sbirro» di Lenzi (1976). Ormai è finalmente un protagonista, una maschera popolare, un’icona giovanile destinata e restare di moda fino alle porte degli anni 2000. Sono anni di frenetica attività con registi di fiducia, primi fra tutti Sergio e Bruno Corbucci. Ma nel 1979 è Bernardo Bertolucci a riaprirgli le porte del cinema d’autore con «La luna» e lo segue Michelangelo Antonioni facendone il suo alterego in "Identificazione di una donna" (1982).
Con Hollywood è rimasto sempre in contatto ed è qui che cerca nuova gloria col declinare dei generi del cinema italiano. Lavora con Abel Ferrara, Tony Scott, Sidney Pollack, Oliver Stone (in «JFK» si riveste da cubano), Steven Spielberg, James Gray, Steven Soderbergh, Andy Garcia. Ormai è però ritornato un comprimario, un «cattivo», un immigrato che a Miami ha rimesso su casa e che cerca la quiete con l’unica moglie (Rita Valletti) e il figlio Tomas Jr. L’Italia invece gli è rimasta nel cuore, tanto da tornarci per scrivere con Giuseppe Ferrara la sceneggiatura di «Roma nuda» (2012) che resterà inedito per vicissitudini distributive e in cui riprende i panni di un poliziotto, ormai pensionato. Di lui si ricorda Marco Muller che, da direttore del Festival di Roma, gli consegna nel 2014 il massimo premio alla carriera (Marco Aurelio) come attore e feticcio della sua città adottiva. Del resto, in un’apparizione televisiva di qualche anno prima era stato lo stesso Milian a dichiarare che avrebbe voluto essere sepolto proprio a Roma. Nello stesso 2014 torna invece per la prima volta all’Avana come spettatore/narratore del bel documentario «The Cuban Hamlet» di Giuseppe Sansonna.
Fin da giovane è stato attore teatrale, musicista, cantante, protagonista e interprete di una vita appassionante e ogni volta diversa. Il suo sorriso malinconico, la sua strafottente vitalità, la sua ironia popolana (esaltata spesso dal doppiaggio di Ferruccio Amendola) rimangono oggi nella memoria.
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