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Agueci: «Gli anziani boss come ayatollah per custodire regole e tradizioni»

PALERMO. «Sono gli ayatollah di Cosa nostra, i custodi delle vecchie tradizioni di mafia. Anziani dalla lunghissima militanza nelle cosche ai quali è affidato il compito di tenere le redini dell'organizzazione e fare rispettare le regole nel segno della tradizione». Il procuratore aggiunto Leonardo Agueci, che ha coordinato l’inchiesta sfociata nell'operazione «Brasca.Quattro.Zero», fa una analisi della struttura delle cosche e sui suoi riti di potere. «Specialmente nella zona di Villagrazia sembra che il tempo non sia passato, la struttura di Cosa nostra, il suo modo di agire e comunicare sembrano rimasti quelli di 30-40 anni fa. Le regole sono quelle classiche del codice mafioso: obbligo di dire la verità, presentazione rituale, una sorta di codice di moralità che prevede, tra l'altro, di evitare rapporti con esponenti delle forze dell'ordine».

Procuratore, due arzilli vecchietti vengono indicati alla guida della famiglie. Sembra che i capi di Cosa nostra non siano riusciti a formare nuove leve in grado di governare l'organizzazione. Diffidano dei giovani e hanno sul loro conto giudizi poco lusinghieri, ritenendo che preferiscano la bella vita: soldi, alcol, droga e donne. È cambiato anche il sentire delle nuove generazioni di uomini d’onore?
«I vecchi boss sono i custodi dell’ortodossia mafiosa, hanno un ruolo di prestigio e un rango. Poi vi sono le forze impiegate sul campo, più operative, più energiche e giovani. Anche nella mafia c’è un problema di conflitti generazionali, gli anziani si lamentano delle capacità dei giovani, così come avviene in diversi campi della società. Comunque, il ricambio c'è stato e continua a esserci. Anche perché la mafia continua a fare presa sulle nuove generazioni. E poi, di gente disposta a impugnare la pistola e a sparare se ne trova sempre. Il problema non sta nei nuovi reclutamenti e negli avvicendamenti. È più ampio e riguarda la compattezza unitaria dell’organizzazione e la sua presa sul tessuto sociale. Il vero problema è questo. Cosa nostra in Sicilia ha potuto raggiungere la potenza che aveva, perché forte, solida e compatta (una volta risolte le guerre di mafia). Si è dimostrata capace di condizionare il potere costituito, di rispondere a determinate esigenze di carattere sociale ed economico, e di rappresentare, in definitiva, il miglior punto di riferimento per chi puntava a scalare rapidamente posizioni di potere. Oggi non è più così ma il cammino da compiere è ancora lungo».

C’è un problema culturale ancora grande che incide pesantemente sulla sconfitta della mafia. Ma Cosa nostra ha un futuro?
«Nel concreto la potenza di Cosa nostra è certamente minore, oltre venti anni di indagini qualche importante risultato l'hanno prodotto. La reazione dello Stato ha consentito la formazione di una forte area di contrapposizione a Cosa nostra da parte del tessuto sociale, che prima non esisteva. Oggi la legalità è un concetto che ha un suo corpo ed una sua visibilità esterna, ed anche la discussione se buona parte dell’”antimafia” sia vera o strumentale può farci ancora maturare. C’è un atteggiamento diverso, certo, si è formato un movimento di reazione alla mafia, le denunce sono cresciute ma i segnali sono contraddittori, anche da quartiere a quartiere. Nella zona di Villagrazia, per esempio, è emersa dalle indagini una totale soggezione alla imposizione di Cosa nostra. Insomma, il concetto di legalità deve ancora affermarsi pienamente. Il futuro di Cosa nostra, struttura capace di pesanti condizionamenti sino a soffocare l'esistenza di molti, dipende molto anche da un fattore culturale, oltre che dal lavoro di repressione. Quando il sistema della legalità sarà credibile e convincente, quando nessuno si arrischierà ad affermare che con la mafia si stava meglio, si formeranno le basi per la definitiva sconfitta della mafia».

Qual è oggi l’obiettivo strategico di Cosa nostra?
«Rimane sempre il potere sia pure attraverso forme diverse, soprattutto nel campo economico. Quello che conta sono sempre i soldi e tutto quello che possono rappresentare. Oggi non è più al centro delle famiglie il controllo fisico del territorio, ma quello delle risorse economiche».

Che tipo di affari predilige la mafia?
«Vi sono quelli tradizionali come il traffico di droga e il pizzo, strumenti fondamentali per imporre il proprio predominio. Ma da tempo svolgiamo indagini anche nel settore degli investimenti ed in quello delle infiltrazioni sulle risorse pubbliche nazionali e comunitarie, come ad esempio i finanziamenti per le energie alternative, dove i clan hanno da sempre puntato a mettere le mani ed ancor di più in un periodo di difficoltà economica come quello attuale. Il campo è vasto e c'è ancora tanto da scoprire. Noi ci stiamo lavorando. Sappiamo bene che non ci si può limitare ad arrestare gli estortori e trafficanti, c’è un livello superiore da individuare. È chiaro però che si tratta di realtà difficili da conoscere e scandagliare».

La mafia ha cambiato pelle, ha saputo rigenerarsi?
«Certo, anche per via della grande capacità di adeguarsi al mutare dei tempi e delle necessità che via via si presentano. Per cui, anche se indagini come quest’ultima ci hanno dato l’impressione immediata di comportamenti che affondano le radici nelle tradizioni e in riti antichi, la verità più profonda è che l'organizzazione tiene conto con mentalità moderna della realtà economica con cui si relaziona. Gli strumenti per fare soldi si rinnovano sempre e la mafia cerca sempre di adeguarsi anche nelle modalità di gestire la richiesta del pizzo e l'assistenza dei detenuti. Cosa nostra riesce a cambiare pelle e metodi con un obiettivo sempre identico: accumulare ricchezze e gestire il potere».

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