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Lupo: la mafia è in crisi e non sa riprodursi, ecco perché punta su mogli fidate

PALERMO. «La presenza di una donna al vertice di un clan mafioso è segno di una crisi dell’organizzazione». Lo storico Salvatore Lupo, docente di storia contemporanea all’Università di Palermo, commenta così la notizia dell’arresto di Teresa Mannino, la moglie del boss Tommaso Lo Presti, detenuto in carcere, che in assenza del marito aveva preso il comando delle attività criminali del clan Porta Nuova. Secondo lo storico, questo episodio testimonia come le organizzazioni mafiose abbiano «difficoltà a riprodursi». E così in assenza di «persone fidate» puntano sulle donne, che «sono a conoscenza del tessuto di rapporti, ma per potere ricoprire il comando dell’organizzazione devono possedere delle capacità, anche se le direttive possono arrivare dai familiari detenuti». Insomma, non sarebbe solo il legame di sangue che consente alle donne nella mafia di scalare le gerarchie e arrivare al vertice dell’organizzazione ma, sostiene Lupo, «devono essere anche all’altezza del ruolo per poter dirigere le attività criminali e condizionare le attività degli altri affiliati».

Perché una donna si trova a svolgere le funzioni del marito arrestato e ad assumere la guida del clan?
«Si tratta di un fatto che indica la crisi di Cosa nostra, la difficoltà di quest’organizzazione o di questa serie di organizzazioni a rinnovare i propri quadri dirigenti e intermedi. Così i gruppi diventano più piccoli, perché boss e gregari si trovano in galera. È evidente che Cosa nostra nel suo aspetto settario è un’organizzazione esclusivamente maschile, ma siccome le famiglie di Cosa nostra affondano nelle famiglie di sangue, dove si riproducono le regole comportamentali della mafia, allora pensare che le donne siano del tutto innocenti della fenomenologia mafiosa è sbagliato. Anzi, molto spesso sono le principali riproduttrici dei codici che vengono trasferiti di padre in figlio. In un momento di crisi non deve stupire che abbiano responsabilità, per così dire, operative».

Non è il primo caso di fronte al quale ci troviamo. Questo che cosa significa?
«È stato un fenomeno molto più frequente in ambienti camorristici, un fenomeno forse legato a una minore strutturazione. Nell’ambito di Cosa nostra non sarà una novità assoluta, ma certamente sono fenomeni indicativi di una crisi. Non credo invece che sia un fenomeno legato alla modernizzazione, cioè all’aumento dei ruoli assunti dalla donna nella nostra società che comporta un aumentano degli spazi ricoperti anche nella organizzazione criminale».

Tra i principali compiti della donna anche l’attività da “manager”, con attenzione agli affari e alla gestione economica della cassa del clan. Come si spiega?
«Siccome i gruppi mafiosi sono anche imprese criminali, oltre ad avere tante altre funzioni, si può affermare che sia necessario un ruolo di coordinamento paragonabile a quello di un manager. Che poi sia una donna a tenere insieme queste attività, da un punto di vista razionale ed economico, non deve stupire. Non fa altro che eseguire il ruolo che le è stato assegnato proprio dal clan, che ha bisogno in assenza del marito di una guida anche sotto questo punto di vista. Certamente non è il solo compito affidato a una donna al comando. In queste circostanze, chi è al vertice si trova a dover svolgere diverse funzioni, anche contemporaneamente».

Ma sono funzioni che una donna ha concretamente le possibilità e le capacità di ricoprire o le vengono assegnate sono per via del legame col boss detenuto?
«Probabilmente quella donna è capace e sa svolgere quelle funzioni. I gruppi mafiosi cercano persone fidate e all’altezza del ruolo e hanno difficoltà a trovarle oggi. Anche perché molto spesso pure le seconde linee si trovano in carcere. Quindi, se c’è una donna che ha queste caratteristiche è possibile che le vengano affidati compiti e ruoli di primo piano. Ma è un segnale di crisi in un’organizzazione che è esclusivamente maschile».

Quali sono i tratti di una donna alla guida di un clan?
«È giusto non generalizzare. Non c’è la donna, ma ci sono le donne al potere. Ognuna ha le sue peculiarità e delle caratteristiche che le consentono di occupare determinati ruoli. Scavando nella personalità di ogni singola persona si trovano le ragioni per cui una ha assunto un ruolo a preferenza di un’altra. Certamente non è un fenomeno legato alla modernizzazione della società e di riflesso anche dei gruppi criminali. Ormai ciò si è verificato da tempo».

È pur vero che la modernizzazione della società ha cambiato alcune tradizioni consolidate nella mafia…
«Sono ormai lontane nel tempo quelle teorie che non ammettevano comportamenti differenti dalle regole codificate dai gruppi mafiosi. È vero, la modernizzazione ha sparigliato le carte. Non ci sarà mai una mafia senza codici d'onore ma una società come quella mafiosa, prescrittiva, ordinata non esiste più: i mafiosi fanno parte della nostra società e obbediscono alle sue regole generali».

E che cosa è successo nel modo di vedere la donna all’interno dei clan mafiosi?
«In passato alle donne dei mafiosi non era consentito di fare quanto veniva consentito alle altre. Le donne all’interno dei gruppi però progressivamente hanno acquisito anche un certo grado di libertà nella vita di ogni giorno. Certamente, resta però in molti casi un controllo sulla vita femminile. Basta considerare che le mogli o le fidanzate degli affiliati che si trovano in carcere, le cui famiglie dipendono economicamente dall’organizzazione criminale, sono controllate o ben inserite nella stessa organizzazione».

C’è una tradizione mafiosa femminile?
«Più che nella mafia, c’è nella Camorra. Diverse bande camorristiche sono state capitanate da donne. Non è, però, un fenomeno importato. Deriva da esigenze immediate della cosca. Essendoci nella Camorra una situazione meno strutturata, con una tradizione meno forte dei gruppi, le donne sono arrivate al potere con maggiore facilità, soprattutto perché quei gruppi hanno avvertito la crisi prima della mafia».

Poco più di un mese e mezzo fa Bagheria è stata al centro di un’operazione che ha portato in cella venti persone per estorsione, adesso l’operazione “Panta Rei” ha preso di mira anche il clan di Bagheria. Che cosa testimonia ciò?
«Potrebbe testimoniare una cosa molto positiva. Che questi gruppi sono sempre fortemente sotto tiro da parte delle autorità. Cercano anche di resistere, ma possono farlo fino a una certa misura. Speriamo che questa resistenza non duri a lungo».

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