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I figli di Borsellino: quando morì papà aveva la sua agenda rossa

Lucia Borsellino

CALTANISSETTA. Torna l'agenda rossa, il diario da cui Paolo Borsellino, raccontano da anni familiari e amici, nelle settimane prima di essere trucidato non si separava un istante. Scomparso dalla borsa del giudice assassinato da Cosa nostra il 19 luglio del 1992, non è mai stato ritrovato.

A parlarne, dopo inchieste che, invano, hanno cercato di far luce sul mistero della sua sparizione, sono i figli del magistrato, Lucia e Manfredi, oggi chiamati a testimoniare al quarto processo per la strage di via D'Amelio che vede alla sbarra i boss Vittorio Tutino e Salvo Madonia e i falsi pentiti Vincenzo Scarantino, Francesco Andriotta e Calogero Pulci, autori di un clamoroso depistaggio investigativo costato l'ergastolo a sette innocenti. "Il giorno della sua morte, vidi mio padre mettere nella borsa, tra le altre cose, l'agenda rossa da cui non si separava mai", ha raccontato Lucia Borsellino. Parole confermate dal fratello che ricorda il padre "scrivere compulsivamente sul diario".

"Dopo la morte di Giovanni Falcone - dice ai giudici della corte d'assise - la usava continuamente. E non per appuntare fatti personali. Era certamente un modo per segnare eventi e cose di lavoro importanti. Se non fosse andata persa, le indagini sulla sua morte avrebbero certamente preso un'altra direzione". Manfredi è certo che abbia resistito, come l'altra agenda ritrovata intatta nella borsa del magistrato, alla tremenda deflagrazione di via D'Amelio. Ma la sorte del documento che entrambi i figli di Borsellino ritengono prezioso non si è mai scoperta.

Per la sparizione è stato indagato e poi prosciolto un capitano dei carabinieri, Giovanni Arcangioli, ripreso, dalle tv accorse dopo la bomba, mentre si allontanava con la borsa del giudice. Di certo, raccontano i Borsellino, c'è che la valigetta del padre venne loro restituita dopo qualche settimana dalla morte del magistrato. Dentro c'era tutto tranne l'agenda rossa. A riportarla a casa fu l'allora capo della Mobile Arnaldo La Barbera, poi deceduto. Il poliziotto, che era a capo del gruppo investigativo che indagò sulle stragi di Capaci e via D'Amelio, si irritò molto quando Lucia Borsellino pretese di capire che fine avesse fatto il diario.

"La Barbera escluse che ci fosse stato e mi disse che deliravo", racconta la donna. Dei modi "discutibili" del poliziotto parla Manfredi, sottolineando che nessun investigatore fece loro domande sul diario del padre nonostante fosse chiara l'importanza che in famiglia si attribuiva alla sua sorte. Negli ultimi giorni di vita Borsellino aveva fretta. Lo ribadisce più volte il figlio.

"Sapeva di andare incontro a un destino segnato. Ce lo aveva detto dopo la morte di Falcone e voleva essere sentito dai colleghi di Caltanissetta che indagavano sull'eccidio di Capaci. Tanto che, in un'occasione pubblica - racconta il teste - quasi a sollecitare la sua convocazione, disse che della tragica fine dell'amico avrebbe parlato solo ai magistrati nisseni. Aveva un gran rispetto delle istituzioni". Ma il magistrato venne assassinato prima della audizione.

Due anni fa, al processo, Francesco Paolo Giordano, ex procuratore aggiunto a Caltanissetta nel 1992, raccontò che con l'allora capo dei pm Giovanni Tinebra si era concordato di sentire Borsellino la settimana successiva al 20 luglio. Nessuno, comunque, aveva ancora comunicato l'intenzione della Procura al giudice. Il tritolo della mafia, però, arrivò prima.

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