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Peri: «Il centro di Mineo bomba a orologeria, chi sta lì per mesi perde ogni identità»

«Individuare le responsabilità» sul perché si è creata questa situazione di tensione tra migranti e popolazione, sul perché i tempi di permanenza nella struttura sono così incomprensibilmente lunghi, sul perché non si è dato ascolto alle comunità locali. Il vescovo di Caltagirone, monsignor Calogero Peri, condanna con forza la violenza usata contro la coppia di anziani di Palagonia, segue da vicino il disagio e il dolore vissuto dagli abitanti della sua diocesi e oggi presiederà la celebrazione dei funerali dei coniugi Solano. C'è la concreta preoccupazione per le reazioni che potranno esserci nei paesi vicini al Cara di Mineo, ma monsignor Peri va oltre e chiede un'assunzione di responsabilità da parte di tutti.

«Perché c'è la responsabilità di questa mano che ha agito, ma c'è anche una responsabilità sociale, collettiva, siciliana, italiana, europea» dice monsignor Peri, avendo bene presente il peso che gli sbarchi massicci negli ultimi anni hanno addossato sulle spalle della sua comunità. In un territorio di appena 15 comuni, la presenza di tremila migranti di svariate etnie, tribù e fedi religiose nel Cara di Mineo ha qualcosa di anomalo.

Questo duplice omicidio, in cui sarebbe coinvolto un ospite del Cara di Mineo, riaccende i riflettori su una struttura inadeguata, dove si è assistito a vari tipi di violenze. Quali responsabilità hanno le istituzioni?

«Bisogna battersi il petto tutti per la tragedia che è accaduta. Ma bisogna tornare con la memoria al ”peccato originale”, che è stato l'insediamento del Cara. Quando i 15 Comuni del territorio avevano detto all'allora ministro dell'Interno Roberto Maroni della Lega, nel governo Berlusconi, che avrebbero preferito ricevere 200 migranti ciascuno, per integrarli. Invece, non c'è stata vera comprensione del fenomeno, né lettura del territorio, si è preferita una colonizzazione del territorio senza integrazione».

Anche perché i richiedenti asilo restano per mesi in questo centro.

«Quanto tempo aspettano lì queste persone, tanto da potersi creare una nuova identità sociale, da procurarsi una bicicletta, da raccogliere vestiti in giro? Questa è diventata una residenza anomala per migliaia di persone di quaranta etnie diverse, posteggiate lì per tempi non certi. Certo che si innescano bombe a orologeria. Cosa fanno questi giovani là dentro? Ci sono stati tanti episodi in questi anni, a partire da incursioni nei giardini o nelle case di campagne. Questa situazione di disagio, ovviamente, non giustifica in alcun modo la violenza».

La Chiesa locale riesce ad avere rapporti con questi migranti ospiti del Cara? Che tipo di iniziative avete portato avanti?

«Purtroppo non è possibile entrare, se non in occasioni speciali. Incontriamo i cristiani presenti all'interno facendoli arrivare in paese e poi riportandoli al Cara. Ma noi consideriamo questo luogo come un altro dei nostri comuni diocesani. Non è un caso che abbiamo voluto fare partire da lì la ”peregrinatio” della Madonna del Ponte, proprio a significare che quel centro è parte del nostro territorio».

C'è il rischio concreto che si diffondano atteggiamenti razzisti tra la gente?

«Il compito di una società civile è di rendere passaggi delicati come questo flusso migratorio il più possibile protetti. Capisco che molta gente dica ”buttiamoli tutti fuori”. Ma è necessario che ognuno si batta il petto e individui le proprie responsabilità. Chiediamoci perché abbiamo fatto in modo che si creasse questo sottobosco di illegalità».

L'ostilità della gente della zona, però, è cresciuta.

«L'ostilità nasce già dall'impostazione stessa che è stata data all'accoglienza. Uno Stato che paga 35 euro al giorno per ciascun migrante, che significano mille euro al mese a persona, e che per le famiglie siciliane nel bisogno non dà nulla innesca l'ostilità dei cittadini verso questo fenomeno, che evidentemente permette a qualcuno di guadagnare».

I flussi migratori continuano senza sosta, così come le morti in mare. In Europa c'è un dibattito molto duro sui criteri di accoglienza e c'è chi, anche all'interno della Chiesa, punta il dito sulla sostanziale assenza dell'Onu in questa emergenza umanitaria. Chi deve intervenire?

«C'è una responsabilità sociale, collettiva, siciliana, italiana, europea. Mano a mano ci rendiamo conto che sono più le assenze che le presenze, come se si chiamasse un appello e rispondesse solo chi ha interessi in quel momento».

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