PALERMO. Prendono la parola in due. Prima Totò Riina, poi suo cognato, Leoluca Bagarella, mafiosi stragisti da anni al 41 bis. E alla fine di un'udienza poco movimentata, dopo avere saputo che il capo dello Stato Giorgio Napolitano il prossimo 28 ottobre verrà sentito come testimone al processo sulla trattativa Stato-mafia in cui entrambi sono imputati, chiedono di assistere alla deposizione. In video-collegamento dal carcere, s'intende, ma con la facoltà di fare dichiarazioni spontanee e intervenire come il codice garantisce loro.
Comprensibili quindi alcune perplessità che si registrano al Quirinale sulla vicenda: dubbi che vanno al di là della persona di Giorgio Napolitano - che infatti testimonierà - ma che investono le garanzie e le prerogative del capo dello Stato, come d'altronde si evince dalla clamorosa possibilità che due boss stragisti possano in qualche modo interagire con la massima carica dello Stato. «Voglio assistere», ha subito detto Riina. «Anche io voglio partecipare», gli ha fatto eco Bagarella.
Ma il presidente della corte d'assise che celebra il dibattimento e il 28, data concordata col Colle, si sposterà con i giudici popolari al Quirinale, taglia corto. Già alla scorsa udienza, ribadendo la necessità di sentire il capo dello Stato - alcune difese avevano chiesto la revoca della ammissione di testimonianza - aveva precisato che a sentire Napolitano, oltre al collegio, saranno solo i pm e i legali degli imputati.
Escludendo di fatto gli accusati e il pubblico e applicando, in assenza di una norma specifica, la legge che disciplina la deposizione del teste sentito a domicilio. Ma la vicenda non è affatto semplice. Di fronte alle richieste di Riina e Bagarella la corte si è riservata di decidere. Probabilmente risponderà alla prossima udienza, fissata per il 9 ottobre. La questione però potrebbe creare non pochi problemi tecnici. E evidenti imbarazzi. La norma richiamata dal presidente, infatti, al secondo comma prevede che «il giudice, quando ne è fatta richiesta, ammette l'intervento personale dell'imputato interessato all'esame». Una disposizione che, se violata, potrebbe comportare in appello la nullità della singola prova, in questo caso della testimonianza di Napolitano, o, secondo parte della giurisprudenza, di tutto il processo. Ma su cosa dovrà deporre il capo dello Stato? Al centro della testimonianza, richiesta dalla Procura e circoscritta dai rigidi paletti fissati dai giudici, sono i timori espressi a Napolitano dal suo ex consigliere giuridico Loris D'Ambrosio, poi morto, su episodi accaduti tra il 1989 e il 1993 riconducibili, secondo i magistrati, proprio alla trattativa Stato-mafia.
Il Capo dello Stato lo scorso novembre aveva inviato una lettera al Presidente della Corte nella quale diceva di non aver avuto «ragguagli» o «specificazioni» da D'Ambrosio su quei timori e, pertanto, di non avere «da riferire alcuna conoscenza utile al processo». Una valutazione che il collegio non ha ritenuto di per sè sufficiente a evitare la deposizione. Non si può escludere il diritto delle parti di chiamare un testimone su fatti rilevanti per il processo solo perchè questi ha escluso di essere informato sui fatti stessi, è stata in sostanza l'argomentazione seguita dalla corte. Da qui la decisione di andare avanti. E ieri la lettera del capo dello Stato che ha confermato la disponibilità a deporre e ha indicato la data.
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