Addio a Sven Goran Eriksson, allenatore e gentiluomo: con lui la Lazio vinse il secondo scudetto
Ha affidato il suo ultimo saluto ad una docu-serie tv, di prossima uscita, già sapendo il destino che lo attendeva di lì a poco, per colpa di una diagnosi impietosa, un tumore al pancreas che oggi ha spento la vita di Sven Goran Eriksson. Aveva 76 anni. Ad annunciare la morte dell’ex tecnico della Lazio campione d’Italia è stata la famiglia, che gli è stata sempre al fianco in questi ultimi mesi di sofferenza ma anche di accettazione, per una malattia incurabile che Eriksson ha vissuto come il prezzo dovuto «ad una vita bellissima». Un’esistenza mai banale, ricca di vittorie ma anche sconfitte, calcio a tutte le latitudini, in ogni Continente. Senza mai rinunciare alla sua proverbiale compostezza in panchina, che ha contraddistinto tutta la sua carriera. Fin dagli esordi, già di successo, alla guida del Goteborg, condotto a sorpresa fino alla vittoria della Coppa Uefa nel 1982, battendo in finale il più titolato Amburgo. L’Europa scopre questo giovane tecnico, nato a Sunne, nella Svezia centrale, e cresciuto a Torsby, con un passato da calciatore trascurabile. Il primo alloro continentale gli vale un biglietto per il Portogallo, Eriksson cede alla corte del Benfica, con cui centra la doppietta campionato e coppa nazionale. Quindi lo sbarco in Italia, sulla panchina della Roma, con la quale perde un clamoroso scudetto alla penultima giornata: fatale una clamorosa sconfitta casalinga contro il Lecce già retrocesso. Prima di lasciare la Capitale riesce comunque a vincere una Coppa Italia, il trasferimento a Firenze, dove resta due stagioni. Nella seconda parentesi al Benfica, vince il terzo titolo nazionale ma perde la finale di Coppa dei Campioni contro il Milan, e qualcuno gli affibbia l’ingenerosa l’etichetta di «perdente di successo». Nel 1992 lo svedese torna in Italia, per cinque anni alla Sampdoria. Vince una Coppa Italia, ma per lo scudetto deve ritornare a Roma, sponda Lazio. L’anno del giubileo, quello del secondo scudetto dei biancocelesti dopo il trionfo '73-74 firmato Maestrelli e Chinaglia, è la sua consacrazione personale, che cancella l’amarezza per la sconfitta nella finale di Coppa Uefa contro l’Inter di Ronaldo. Quattro stagioni all’Olimpico, per poi diventare il primo tecnico straniero sulla panchina dei Tre Leoni. Fa sognare l’Inghilterra quando batte la Germania 1-5 a Monaco di Baviera, ma ai mondiali del 2002 esce ai quarti di finale. Stesso percorso agli Europei successivi, così come ai mondiali del 2006. Il sempre più difficile rapporto coi tabloid, che si interessano alla sua vita privata durante il lungo fidanzamento con l’avvocato italo-londinese Nancy Dell’Olio, lo spinge a lasciare la Nazionale. Ma resta in Inghilterra, ingaggiato dal Manchester City del magnate thailandese Thaksin Shinawatra. È l’inizio della sua parabola discendente, che lo porterà negli anni successivi a guidare altre due nazionali (Messico e Costa d’Avorio), il Leicester, tre squadre cinesi (Guangzhou R&F, Shanghai Sipg, Shenzhen) e infine la nazionale filippina. Senza più riuscire ad ottenere i successi di una volta, ma rimanendo sempre Sven Goran Eriksson.