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La fame nel mondo, Conforti: «Per contrastarla proviamo a fare la spesa ogni giorno»

Il cibo per tutti non è un'utopia. È possibile eliminare la fame nel mondo nella nostra generazione. E quindi assicurare il cibo a quegli 800 milioni di persone (tra cui 165 milioni di bambini) sparse per il pianeta che oggi non hanno nessuna garanzia di mettere qualcosa sotto i denti tutti i giorni. E noi occidentali potremmo dare il nostro contributo anche con un piccolo gesto: fare la spesa ogni giorno e non una volta ogni settimana, metodo utile contro gli sprechi del cibo. Tutti argomenti attualissimi nell'anno di Expo e del suo tema «Nutrire il pianeta». Ma anche il prossimo 27 maggio quando a Roma (in collegamento live con Milano) il direttore generale della Fao, il brasiliano José Graziano da Silva, leggerà i risultati dell'attività dell'organismo che studia la fame nel mondo a conclusione del ciclo di monitoraggio che dura dal 1990.

I temi del rapporto saranno diffusi in quella giornata. Ma un dato lo possiamo dare subito. Negli ultimi due decenni sono in calo le persone che muoiono di fame. Giusto?

«Sì, se ci fermiamo ai numeri - dice Piero Conforti, economista alla Fao - il dato emerge in modo chiaro. In venticinque anni sono diminuiti di circa 200 milioni. Che non è poco se raffrontato al fatto che nello stesso periodo la popolazione mondiale è cresciuta di circa due miliardi di persone».

Quali le aree del mondo che soffrono di più la fame?

«Quelle al sud del Sahara oggi sono le più problematiche. Paesi dalle economie e dalle istituzioni fragili e talvolta appesantiti anche da condizioni naturali sfavorevoli. Penso alla Repubblica Centrafricana ed altri paesi del Sahel. Ma il fenomeno ha una certa discontinuità perché il Ghana, che è in quell'area, ad esempio ha fatto molta strada, e debellato il problema della fame cronica. Così a distanza di poche centinaia di chilometri lo scenario puó cambiare radicalmente».

Tutto qui?

«No, perchè a soffrire la fame c'è adesso lo Yemen, l'Iraq... Paesi dove l'instabilità politica sta aprendo nuovi fronti della fame. Registriamo invece miglioramenti significativi nell'America Latina, e penso al Brasile, al Perù, al Cile. E poi c'è l'Asia: la Cina ha fatto passi vistosi in avanti, India e Pakistan migliorano pure ma molto lentamente».

Dove c'è democrazia c'è più cibo per tutti?

«La Fao non si occupa delle scelte politiche dei Paesi. Ma è naturale che laddove c'è meno instabilità politica c'è minore insicurezza alimentare».

Quali le ricette per contrastare la fame nel mondo allora?

«Direi che servono due medicine. La prima è quella della crescita economica che però generi opportunità di reddito per tutti, l'altra è la stabilità politica. Laddove la situazione è migliorata, come in alcuni Paesi dell'America Latina, si sono verificate entrambe le situazioni. Tuttavia bisogna stare attenti a un nuovo fenomeno che riguarda alcuni Paesi emergenti».

Quale fenomeno?

«In alcuni Paesi che sono sotto la soglia della sicurezza alimentare si registrano anche consumi eccessivi di cibo. Convivono cioè insieme casi di obesità ma anche di malnutrizione e scarsità di risorse. È quello che chiamiamo double burden, ovvero doppio fardello della malnutrizione. Si mangia troppo e male. Magari ci sono tanti carboidrati a disposizione ma poi mancano le proteine. Una forma di squilibrio comune in molti Paesi emergenti e anche poveri».

Quali modelli di sviluppo sostenere in questi Paesi: l'agricoltura intensiva delle multinazionali o quella delle microeconomie rurali legate alle identità dei territori?

«Quello che noi vediamo è che servono tutte e due. L'industria alimentare può offrire opportunità. Bisogna che queste opportunità siano però disciplinate, servono quindi regole e politiche che inducano l'industria a fare i suoi profitti senza generare danni per i contadini, senza togliergli la terra, e collaborando con loro. Il profitto non va demonizzato ma va disciplinato. Allo stesso modo le specificità del cibo nelle piccole comunità vanno tutelate, valorizzando risorse locali e specificità dei territori. E sono valori importantissimi. Valori che cominciano ad essere difesi e promossi dal resto del mondo. Lo sviluppo della rete sta portando molto di più a conoscere in Europa e quindi anche in Italia le tante peculiarità, e cresce nello stesso tempo la sensibilità dei consumatori».

Expo darà una mano a risolvere il problema della fame nel mondo?

«In una certa misura sì. È un'opportunità grande. Si parlerà tanto di alimentazione. Ci aiuta a diffondere le informazioni giuste ed a raccontare il problema». L'Occidente resta una parte del mondo distratta? «Difficile da dire. L'attenzione c'è. Ma l'Occidente spesso è in difficoltà nel trovare le vie giuste per agire. Compito nostro è cercare le soluzioni migliori. Che non sono né facili né immediate. Il lavoro è lungo e lento. Gli esempi di successo ci sono. Non siamo in una situazione statica. Certo, i casi di instabilità politica in Medio Oriente stanno creando nuove emergenze».

Resta il grande paradosso di un mondo che butta via cibo che sfamerebbe moltissime persone...

«Sì, purtroppo è così. Viviamo un grande squilibrio. Sprechiamo molto. E più siamo ricchi e più sprechiamo. Quasi un terzo del cibo prodotto nel mondo viene buttato via. Cosa fare? Migliorare le informazioni. Siamo distratti e in alcuni Paesi ci sono fasce di popolazione così ricche che preferiscono buttare tutto piuttosto che darsi la pena di impegnarsi a sprecare meno».

Una ricetta immediata anti-spreco?

«Se facessimo la spesa ogni giorno, e non una volta la settimana, ridurremmo molti casi di spreco. Ma tutti abbiamo poco tempo. Bisogna imparare e insegnare ai nostri figli che è importantissimo non buttare il cibo. E cominciare dalle piccole abitudini quotidiane. E non aspettare la crisi per imparare a risparmiare e a riciclare il cibo del giorno prima. Fare qualcosa per risparmiare le risorse naturali utilizzate per produrre cibo che si spreca è un dovere di tutti, prima che un modo per risparmiare soldi nei momenti difficili».

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