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Iacovino: «Il pilota arso vivo, arma per spaventare l’Islam moderato»

«Le sortite effettuate dall’Aeronautica degli Emirati Arabi in Iraq e Siria si sono ridotte quasi allo zero»

L’orrore lascia il segno. La video-esecuzione del pilota giordano Muaz al-Kassasbeh, trasformato in una torcia umana dai boia della «guerra santa», ha già provocato contraccolpi nella coalizione anti-Isis: «Le sortite effettuate dall’Aeronautica degli Emirati Arabi in Iraq e Siria si sono ridotte quasi allo zero», afferma Gabriele Iacovino, capo degli analisti del Cesi, il Centro studi internazionali guidato da Andrea Margelletti. «Le autorità di Abu Dhabi — spiega Iacovino — temono gli effetti che nel Paese potrebbe avere la cattura di un loro pilota. Il governo emiratino ha già chiesto agli Stati Uniti di spostare più vicino all’area di operazione, possibilmente nel Kurdistan iracheno, il proprio dispositivo militare di soccorso ai piloti abbattuti, che in questo momento si trova in Kuwait. Ma spostare mezzi così importanti in un territorio minacciato da vicino dalle milizie dello Stato islamico, questo è un rischio che Washington non può e non vuole assumersi».

Ostaggi sgozzati, adesso il ventiseienne arso vivo in una gabbia. A chi, a cosa serve tanta esibizione di ferocia?

«Siamo dinanzi a un’ulteriore evoluzione del terrore dello Stato Islamico, stavolta non solo rivolta al pubblico occidentale, ma anche, e soprattutto, alla popolazione di religione musulmana. L’uccisione del pilota giordano ha avuto questa rilevanza anche per i tentativi del governo di Amman di trattare la sua liberazione. Da qui l’ulteriore spettacolarizzazione della morte del pilota, un cittadino giordano di fede musulmana. L’esasperazione della violenza può anche andare in questa direzione».

La Giordania ha risposto, giustiziando due donne accusate di terrorismo. Che impatto può avere tutto questo sul mondo islamico?

«È stata una decisione dettata dal bisogno di fermezza da parte di Amman contro la minaccia terroristica. Il dato importante è stato il fatto che il rapimento e l’uccisione del giovane pilota non ha spaccato la Giordania, a causa del suo impegno militare al fianco della coalizione internazionale capeggiata dagli Usa, anzi ha stretto il Paese attorno a re Abdullah nella lotta al terrore. Questo dimostra come, anche in un Paese così profondamente scosso al proprio interno dalla crisi siriana, non trovano spazio istanze estremiste, nonostante la minaccia rimanga ancora alta».

Per Obama, diventa ogni giorno più difficile rinviare la «fase 2» della missione in Iraq e Siria con l’invio di forze di terra?

«Non è prevedibile, in questo momento, l’invio di forze di terra da parte degli Stati Uniti. Non dimentichiamoci che a Washington è ormai prossima una dura campagna elettorale per la successione a Obama e difficilmente l’attuale presidente intraprenderà una campagna militare durissima e dagli esiti poco prevedibili».

La guerra, comunque, sembra in fase di stallo. Il cosiddetto Stato Islamico resiste ben oltre le attese?

«Dipende da quali erano gli obiettivi che ci si prefissava con questa campagna aerea. Se qualcuno pensava che lo Stato Islamico potesse essere sconfitto con l’attuale numero di sortite aeree effettuate, forse aveva in mente un risultato troppo roseo».

Quindi?

«La difficoltà nell’individuazione degli obiettivi, la vastità dell’area di operazioni e la mancanza di un adeguato supporto a terra sono stati i limiti dell’attuale campagna. Ciononostante, le operazioni della coalizione internazionale sono riuscite a fermare l’avanzata di Is in Iraq e indebolirlo in Siria. La stessa riconquista di Kobane da parte dei miliziani curdi non sarebbe stata possibile senza il supporto aereo americano».

Gli jihadisti non sono, poi, così lontani: possiamo considerare l’emirato di Derna, in Libia, una provincia dell’Isis?

«L’instabilità libica è inevitabilmente una delle principali minacce per la nostra sicurezza nazionale. Nel suo ultimo discorso, il califfo al-Baghdadi ha espressamente riconosciuto l’affiliazione allo Stato Islamico del movimento di Derna dove, peraltro, la presenza di realtà salafite ha una lunga tradizione. Il problema, comunque, sta nel fatto che la sicurezza e la stabilità del Paese non sono minacciate solamente da questo movimento. La Libia è in una situazione di totale anarchia che nel medio periodo potrebbe avere dei risvolti anche per il nostro Paese».

In considerazione di «vicini» così ingombranti e temibili, quanto sono fondate le minacce di un lancio di missili su Palermo e la Sicilia?

«Assolutamente infondate. L’attuale situazione di instabilità non deve portare a una sopravvalutazione della minaccia. In questo momento nessuno dei gruppi terroristici attivi in Nord Africa, che per vicinanza geografica sarebbe l’area dalla quale dovrebbero partire questi attacchi, è in possesso di armi di questa portata né è in condizione di utilizzare un tale armamento».

Certi messaggi in rete, ad ogni modo, possono aumentare i rischi di attentati terroristici nel nostro Paese da parte di fanatici e «lupi solitari»?

«Il rischio c’è, ma le autorità italiane si sono mosse e si stanno muovendo in maniera adeguata per cercare di ridurre al minimo la minaccia. Lo stesso decreto anti-terrorismo, allo studio del nostro governo, è una misura mirata a rispondere al problema mediante l’utilizzo di strumenti adeguati. Purtroppo, però, i “lupi solitari” sono molto poco prevedibili perché la loro minaccia è ad attivazione immediata, con strumenti difficilmente rintracciabili».

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