GELA. Anche se detenuto nel carcere di Catanzaro, il boss Giuseppe Alferi comunicava con l'esterno, dando ordini, attraverso lo scambio dei pacchetti di fazzolettini che portavano nel parlatorio del carcere sia lui che le persone che lo andavano a trovare, soprattutto la moglie, Silvana Cialdino, e l'amante Maria Azzarelli. Era quest'ultima che nascondeva le armi, prestava denaro a usura, ricettava la refurtiva e occupava gli immobili, svolgendo (in assenza del capo) funzioni di raccordo e di controllo della banda. Una terza donna, Antonella Bignola, dipendente della sala Bingo di Gela, procacciava i clienti indebitati ai quali prestare denaro a usura.
La ferocia della banda si manifestava con attentati dinamitardi e incendiari ad auto e negozi, spari contro saracinesche, vetrine e abitazioni e con atti intimidatori anche in danno di integerrimi esponenti delle forze dell'ordine. Un consistente contributo alle indagini è stato dato da Emanuele Cascino, figlioccio e fedelissimo del boss, che per dimostrare la propria devozione al "padrino" se ne era fatto tatuare il volto tra spalle e schiena. Ma sfuggito a tre agguati, per contrasti esplosi all'interno della banda, Cascino é scappato da Gela, rifugiandosi al Nord, e ha deciso di collaborare con la giustizia, malgrado Alferi gli abbia fatto sapere che era disposto a riprenderlo garantendogli ogni immunità. I 28 arrestati sono tutti accusati di associazione mafiosa "finalizzata a commettere delitti di ogni genere e, principalmente estorsioni, furti, danneggiamenti col fuoco, usura, occupazione abusiva di immobili ed altri ancora".
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