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I nodi della giustizia: una protesta sbagliata che avvelena il dibattito

Una sana battaglia di idee sulla riforma proposta dal governo, in particolare sulla separazione delle carriere, va condotta con disciplina e onore. Non convincono le modalità scelte dall’Anm

Confesso di provare un certo disagio nell’accingermi ad assistere alla scena di toghe a servizio della Repubblica che alzano i tacchi per protesta quando comincia a parlare il rappresentante del governo, in particolare il ministro della giustizia, nel contesto solenne dell’inaugurazione dell’anno giudiziario. Si badi, chi parla appartiene a una generazione che in diversi momenti della nostra storia non ha esitato a scendere in piazza a difesa dell’autonomia e indipendenza della magistratura contro le minacce delle mafie, della politica corrotta e dei poteri oscuri come le massonerie piduiste, evidentemente ancora vitali.

Ma. C’è un grande ma. Che oggi ci spinge a ritenere che forse una sana battaglia di idee sulla riforma della giustizia penale e in particolare sulla separazione delle carriere, va condotta con disciplina e onore come chiede l’art. 54 della Costituzione ai cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche, proprio per garantire il lento, riflessivo fluire del pluralismo culturale e politico nell’alveo della democrazia rappresentativa e, se del caso, diretta come accadrebbe in un eventuale appuntamento referendario  all’esito delle decisioni parlamentari.

Detto in altro modo: siamo sicuri che la protesta di oggi, le modalità prescelte dall’Anm sono quelle migliori per favorire una piena comprensione della posta in gioco con la riforma in discussione? Io credo di no. L’immagine che si restituisce alla cittadinanza è quella di una magistratura arroccata sulle sue posizioni, disposta a tutto pur di fermare il processo riformatore in corso che – piaccia o no – sta naturalmente dispiegandosi secondo una ritmica rituale scolpita dalla Costituzione stessa.

Ha senso demonizzare un’iniziativa intrapresa all’insegna del parlamentarismo democratico? No. No, non ha senso e peggiora di molto la qualità del dibattito pubblico, lo estremizza inutilmente, dà spazio a chi – in una sponda e nell’altra – vede in questa riforma una resa dei conti o il bisogno di difendere posizioni di potere corporative impropriamente acquisite negli ultimi trent’anni. La separazione delle carriere, l’istituzione di due Csm (giudicante e requirente) e di un’Alta corte per il disciplinare dei magistrati, sono argomenti non da angeli e demoni, ma essenzialmente discutibili da diversi punti di vista.

In un romanzo bellissimo («La donna giusta»), Sandor Màrai racconta magistralmente come gli stessi fatti possono essere visti e rivisti, analizzati e giudicati, in modo diverso e altrettanto legittimo e «vero», perfino in una ménage a trois amoroso non consensuale, ove certamente di regola non si va proprio per il sottile. Ecco, (ri)prendiamo le mosse da qui. Dalla clausola della fiducia e della buona fede tra i «parlanti» in un agone democratico: ciascuno per partecipare al gioco della discussione è tenuto a fidarsi dell’altro, a riconoscergli almeno la buona fede anche di fronte a un dissenso acuto e addirittura incomponibile. Fino a prova contraria. E qui, francamente, non abbiamo la prova provata che un manipolo di golpisti sta strumentalizzando i mezzi democratici per far diventare l’Italia come l’Ungheria o come gli Stati Uniti, paesi ove in forme e per ragioni diverse i pubblici ministeri non godono certo di autonomia e indipendenza dal sistema politico.

Vorrei, dunque, insieme credo ad altri milioni di italiani, partecipare al dibattito che terrà banco nei prossimi mesi con la libertà anche di cambiare idea che, per il momento, coincide con quella di Franco Coppi, professore brillante di diritto penale e spirito guida degli avvocati italiani, il quale in un recente intervento ha raccontato che nella sua lunga carriera di difensore (tra i suoi assistiti, per citarne solo due, Andreotti e Berlusconi) esclude di aver perso un solo processo a causa di una non sufficiente separatezza tra pubblica accusa e organi giudicanti e che provocatoriamente si è chiesto: «Ma se dovesse realizzarsi la separazione delle carriere, che risultati avremmo sull’effettiva qualità del servizio giustizia? Ancora nessuno è riuscito a spiegarmi a che servirà..».

E però - non sembri contraddittorio - prendo molto sul serio gli argomenti pacati, direi gentili, esposti non solo per gli addetti ai lavori (sulla rivista on-line Sistema penale) a favore della separazione delle carriere da un bravissimo processualpenalista pugliese, Sergio Lorusso, il quale alla fine fa la proposta, da lui stesso definita naif, di un ravvedimento in zona Cesarini per rendere la riforma più accogliente rispetto a obiezioni ragionevoli di chi l’avversa.

Insomma, se si affronta il dibattito con una buona dose di patriottismo costituzionale qualcosa di buono ne verrà. Diversamente alla fine avremo solo vincitori e vinti, il che non depone a favore di un futuro roseo per la nostra democrazia, già esposta al turbinio di Tik Tok, X e diavolerie social della stessa specie. Sicché, un po’ di coraggio e umiltà (virtù degli uomini liberi e forti, avrebbe detto qualcuno), cari magistrati: alimentiamo il dibattito rispettando – anche quando i nostri interlocutori non lo fanno – il bon ton politico istituzionale a cui tutti i servitori della Repubblica sono tenuti e ascoltiamo con compostezza e pazienza, sia pure dissentendo, chi parla a nome di un organo costituzionalmente rilevante come il governo della Repubblica.
Si sa, la via dell’inferno è lastricata da buone intenzioni.

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