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Più fumo che fumate

Le cabine elettorali a Montecitorio

Moderata e trasparente, credibile e carismatica, europeista e liberista. L’auspicio è che dai fumi di questa contorta vigilia emerga una figura che riassuma in sé queste caratteristiche. Uomo o donna che sia, ci frega meno di zero. In barba a chi sbertuccia la figura del Capo dello Stato e lo considera buono solo per i discorsi a reti unificate prima delle lenticchie di fine anno, le cerimonie in giro per il globo e le finali della nazionale di calcio. Sottovalutando - per pregiudizio qualunquista o ignoranza costituzionale - il ruolo strategico e di garanzia del presidente della Repubblica in scelte e passaggi fondamentali per la storia e la vita del nostro Paese. A cominciare dalla gestione di quegli equilibri di governabilità oggi assicurati da Draghi – che, lo ribadiamo ancora una volta, sarebbe bene non schiodare da Palazzo Chigi - e che presto dovranno fatalmente essere rimessi in discussione. Fra un anno al massimo, forse anche parecchio prima.

Tutto questo oggi fa già rimpiangere il profilo, il rigore e la credibilità che nel settennato in scadenza hanno fatto di Mattarella uno dei presidenti più amati di sempre. E gli applausi riservatigli ieri dai suoi concittadini all’uscita di casa ne sono la testimonianza ultima e più scontata, non certo la più eloquente. Il presidente uscente seguirà i giorni di passione a Montecitorio dalla sua Palermo, lontano dai chiacchiericci e dalle sirene. Comprese quelle a cinque stelle, più spaesate che mai. Il 28 maggio 2018 l’ineffabile Di Maio vergava su Facebook – l’arena da sempre preferita dagli ex soldatini grillini – la sua personale scomunica: il no di Mattarella alla nomina a ministro per l’Economia di Paolo Savona rappresentava per Luigino «la notte più buia della democrazia». Oggi i pentastellati – privi di carte valide da giocare al tavolo da poker sul Quirinale - lo osannano come «simbolo luminoso» della nostra democrazia. Inversione che più che tardiva appare opportunistica. Almeno quanto quel «nessun veto su Draghi» che Conte va ripetendo in loop, ma che non significa certo «noi votiamo Draghi». Anche perché rischierebbe di guardarsi alle spalle e ritrovarsi senza nessuno dei suoi al seguito, tutti aggrappati agli scranni per l’ultimo anno possibile, che del domani non v’è certezza.

Una certezza appare esserci invece per oggi: tutti giurano di avere pronti nomi di alto profilo – figurarsi se possono ammettere il contrario – ma l’ipotesi di passare dai densi fumi della vigilia a una fumata bianca da tredici al primo colpo appare fuori portata. E i chiari di luna non lasciano presagire nulla di diverso per i due giorni successivi. Da giovedì invece l’elezione a maggioranza assoluta aprirà il vero braccio di ferro fra parti contrapposte. In una prova muscolare che potrebbe crepare pericolosamente i delicati equilibri politici su cui si regge oggi l’Italia. L’auspicio è che la ricerca di un accordo trasversale vada a oltranza. In fondo nel 2015 servirono quattro scrutini per far convergere il 66% dei consensi su Mattarella. Che oggi tutti vorrebbero ritrascinare su per il Colle. Lui però non ha alcuna intenzione di ripetere il dimenticabile precedente di Napolitano. Come dargli torto?

 

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