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Una politica di corto muso

Il presidente della Regione, Nello Musumeci

A voler parafrasare, come spesso fa la politica, il linguaggio sportivo, quella consumatasi due giorni fa nel parlamento siciliano è una vittoria di corto muso. Solo che qui c'è davvero poco di che stare Allegri (per citare lo sdoganatore in chiave calcistica del gergo ippico). Perché magari la vittoria potrà anche andar bene a chi con Musumeci ha mangiato per circa un quadriennio allo stesso tavolo, salvo poi decidere – in vista dell'arrivo del conto, che si preannuncia salato – di alzarsi di botto, trascinandosi dietro rumorosamente e rovinosamente il tovagliato, con tutto ciò che vi rimaneva sopra. Ma è una vittoria risicata. Che non ha respiro. Non ha prospettiva. E non regala gloria. Consumatasi nel solito gorgo oscuro del voto segreto. Che può paralizzare l'attività amministrativa dell'Isola in un momento peraltro molto delicato. Il governo della Regione stava facendo male? Adesso la Regione rischia di ritrovarsi senza di fatto un governo nel pieno delle sue funzioni. Qualcuno può giurare che è meglio così? Mentre Musumeci prova a ragionare sulla sua rabbia, mentre si briga e intriga nelle segreterie di partito, si eleva già l'accorato appello – sindacati in testa – contro quello «stallo dell'azione di governo che sarebbe gravissimo nella situazione attuale» (Cgil), «una paralisi che è solo un modo per provocare ulteriori danni ai cittadini» (Uil). Chi vuole davvero tutto questo?

Era il 6 novembre del 2019 quando il fino ad allora mite Musumeci alzava i toni e – a legge sui rifiuti appena impallinata – lanciava il suo anatema contro la «politica vile», giurando che mai lui e la sua squadra di governo sarebbero tornati in aula, fino quando non sarebbe stato abolito il voto segreto. Da allora sul voto segreto gli inciampi si sono succeduti a catena. Fino al patatrac di mercoledì. Con un governatore fuori dai gangheri per l'onta di quel «terzo su tre» che tanto sa di imboscata nei suoi confronti. Niente dimissioni. Alla fine azzeramento annunciato e poi differito della giunta. Magari con le nocche che intanto si arrosseranno contro le porte romane. Dove però al momento si discute di ben altro e più ad alti livelli.

Che Musumeci non abbia mai brillato per generosità di dialogo con i componenti della sua stessa maggioranza è vulnus in parte riconosciuto da lui stesso nella conferenza stampa di fine anno («forse avrei dovuto fare qualche telefonata in più...»). Che abbia messo alla porta quei «7 o 8 scappati di casa» che si sarebbero azzardati a sponsorizzare qualche amico per qualche seggiola qua e là è diatriba di retroguardia, credibile ma non dimostrabile, fino a prova contraria. Ma riversare interamente sul Nello da Militello il pentolone bollente di tutte le colpe, ci pare ingeneroso. Oltre che strumentale. Non dimentichiamo che il suo nasce come governo di coalizione. Di assessori direttamente indicati e voluti da lui ce n'è solo uno (il pupillo Razza). Tutti gli altri sono uomini di partito. Se poi Musumeci è riuscito a tirarli dalla sua parte, al punto di sottrarne il controllo stretto alle segreterie, non è che gliene si può fare un torto: da Armao a Cordaro, da Falcone a Messina, tutti nomi che nascono sotto insegne partitiche, coi partiti di riferimento che però adesso vedrebbero volentieri altri al posto loro.

La strisciante e sottotraccia voglia di isolare il governatore si è alla fine tramutata in una guerra fredda, consumata con pochissimi a metterci la faccia (fra questi l'abile Miccichè, nella linea di galleggiamento fra la sferzata diretta e l'argine alla valanga) e tutti a tramare, senza mai rischiare il posto oggi e nel tentativo di recuperarne un altro domani.

Musumeci non è imperatore plenipotenziario. Se male può aver governato – cosa che gli viene imputata soprattutto da chi viveva la prima linea dei (ne)fasti crocettiani – la colpa è sua, della sua giunta e della maggioranza d'argilla che prima lo ha sostenuto e poi ha abiurato. Nel pieno solco di un andazzo speculativo comune ai palazzi della politica. Basta vedere quel che da mesi succede a Palermo, con il triste solitario y final Orlando, lasciato solo all'uscita di scena da chi per decenni si è nascosto dietro la sua taglia carismatica extralarge.

Questa è la politica, direbbero gli analisti col pelo sullo stomaco. Intanto siamo qui a raccontare cronache, sviluppi e retroscena e a snocciolare urgenze ed emergenze finite in stand by. Non proprio una novità, quando certa politica preferisce provare a vincere così. Di corto muso.

 

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