Tre giorni. Senza voler cedere alla blasfemia, dubitiamo che basteranno a far risorgere la scuola dalle paure che ne attanagliano istituzioni dirette e indirette. Non tutte giustificate. Sufficienti però – dopo giorni di pressioni – per indurre presidente della Regione, sindaci, presidi, sindacati a decidere di prendere tempo. Non si torna in aula domani. Né si passa in Dad. Si resta tutti a casa. E si aspetta. Ma cosa? Nel comunicato della Regione si legge che «il tempo disponibile potrà essere utilizzato per potenziare le attività di monitoraggio sanitario e di vaccinazione della popolazione scolastica». Complicato accettare come credibile il concetto che in 72 ore svolteremo sulla curva lunga delle vaccinazioni, soprattutto fra i più giovani, al punto da imboccare un rettilineo di ritrovata serenità. Il monitoraggio? Tre giorni per scoprire che? Che in Italia ci sono 200 mila casi al giorno lo sappiamo già. E che nulla cambierà ancora per un po’ altrettanto.
Se invece il tema è la totale impreparazione strutturale e gestionale delle nostre scuole, allora altro che tre giorni. Servirebbero almeno tre anni. Ma non buttati via, come si è fatto di questi due di pandemia. Locali inadatti, aule pollaio, riscaldamenti sfasciati, ricambio dell’aria nullo, se non tenendo all’addiaccio i ragazzi accanto alle finestre spalancate. Fra il gennaio 2022, anno tre dell’era Covid e il gennaio 2020 – quando il Covid era (purtroppo solo mediaticamente) una remota influenza cinese – le nostre scuole non sono mutate di una virgola.
Intanto il governo detta regole – giuste o sbagliate che siano – ma tutti vanno a ruota libera. E se ognuno fa da sé, in Sicilia facciamo per tre. Il tutto mentre molti esperti sottolineano come non sia oggi la scuola il fronte più esposto. Lì i ragazzi stanno tutti in mascherina, il personale (si suppone) pure, le attività a rischio sono ridotte se non abolite (ginnastica, musica). In un Paese in cui ci si inventa l’obblighino vaccinale (solo per over 50, cioè la classe anagrafica in assoluto più vaccinata), si propina la burletta dei 100 euro di multa (come, chi, boh) e ci si balocca col super green pass (qui sì, qui no, qui forse, a seconda delle convenienze elettorali), l’unica vera mannaia la si vuol far calare sulla scuola. Da oasi a frontiera, nello spazio di un Natale.
Intendiamoci, nessuno vuole sottovalutare le preoccupazioni espresse da insegnanti, bidelli o (ma in percentuale molto inferiore) genitori e risuonate nelle stanze della politica. Il dilagare del contagio è roboante, cosa che - alleluia – sembra aver creato qualche crepa anche nel fronte meno integralista dei no vax, come dimostra l’impennata di prime dosi, magari in concorso di parziale merito con l’obblighino suddetto e l’estensione del super green pass a tutti i lavoratori. Ma siamo certi che basti decidere di prendersi tre giorni di tempo... per decidere? Lo scopo è ben altro: la Regione esercita una facoltà garantita dalla sua autonomia anche in materia di calendari scolastici, per aspettare e sperare che intanto a Roma cambino idea, dirottando sulla Dad. E però ancora ieri il ministro Bianchi sottolineava come «la nostra è una scelta chiara: tutelare il più possibile la presenza e, con essa, i nostri ragazzi che vengono da due anni difficili, caratterizzati da discontinuità che hanno segnato il loro apprendimento». Forzare senza indugi sull’obbligo e senza eccezioni sul super green pass avrebbe aiutato ad affrontare meglio il ritorno in classe. E invece le bizze leghiste e i proclami del redivivo Grillo (che parla ai suoi come non riesce a fare il non leader Conte), hanno spinto Draghi ad accettare l’annacquata mediazione. Che ci continua a fare inseguire il virus, invece che affrontarlo a muso duro.
E allora, ragazzi tutti a casa (e i genitori lavoratori si arrangino). Ci rivediamo – forse - dopo tre giorni. Anche se dall’ultima volta che bastarono per un miracolo sono trascorsi ormai quasi duemila anni...
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