Ieri, poche ore dopo la non proprio oceanica manifestazione di piazza a Palermo contro il Dl Sicurezza, Di Maio – sempre più soffocato dall’ingombrante Salvini – sparigliava, dicendosi pronto ad accogliere in Italia donne e bambini all’addiaccio al largo di Malta. Una mossa di chiara matrice politica – visti i tanti mal di pancia nella base pentastellata contro le rigidità leghiste - ma che lascia trapelare come anche a Roma qualche certezza in materia di migranti comincia a traballare.
D’altra parte, è evidente che il governo ha tutta l’intenzione di superare e strozzare la protesta dei sindaci, anche per evitare di foraggiare scomodi confronti con le amministrazioni locali. Queste ultime storicamente più capaci di intercettare e pilotare (ma anche cavalcare e deviare) mugugni e malumori di piazza, di quanto non possa fare un governo nazionale alle prese con i troppi inevitabili equilibrismi sociali, antropologici e finanziari di un Paese tutt’altro che monolitico.
Va in questa direzione la presa di posizione di un Conte sempre più pompiere alla guida di un esecutivo con troppi sobbalzi umorali e troppe tentazioni da proclami social: dirsi pronto a chiamare attorno a un tavolo i sindaci è un ottimo modo per intanto declassare l’incendio a fiammella. Anche perché nel frattempo l’evidenza appare chiara. In piazza ieri davanti al palazzo comunale a Palermo erano obiettivamente in pochi. Ma nulla questo sposta, in un senso o nell’altro. Non aggiunge, nè toglie alcunchè alle ragioni della protesta e a quelle di chi ad essa si oppone. E dunque anche per questo sarebbe meglio evitare il masochistico alibi del troppo freddo che avrebbe dissuaso molti dal manifestare. Dimenticando che sarebbero dovuti essere lì magari proprio per chi al freddo in mare aspetta drammaticamente aiuti da giorni. Così come è bene evitare di cadere nella tentazione, alle nostre latitudini solita e abusata, di distribuire patenti e titoli a chi c’era e a chi non c’era.
Il fatto è che proprio Palermo e il suo sindaco assurgono oggi a modello in scala di una realtà italiana particolarmente composita. In questa città come altrove ci si divide fra il «prima noi» e il «siamo tutti uguali». E, in tal senso, una volta tanto la bulimica produzione di riflessioni social ne è eloquente dimostrazione. Probabilmente nessuno dei due fronti ha torto. Anche se non necessariamente entrambi hanno ragione, se si limitano a sostenere solo le proprie ragioni. In una città in cui l’immondizia si accumula sui marciapiedi, a loro volta lasciati al buio da un servizio di illuminazione pubblica mai così deficitario come oggi. In una città in cui fino all’altroieri aleggiava lo spettro del ritorno dell’acqua distribuita a giorni alterni, salvo poi ritrovarsi con piazze-pantani e strade-torrenti ad ogni giro di acquazzone. In una città in cui disoccupazione e disagio sociale continuano a contendersi lo spazio sulle cronache con criminalità e malaffare. In una città così, può maturare il disappunto di massa verso politiche di accoglienza e solidarietà che poco hanno a che vedere con i problemi quotidiani dei palermitani stessi. I quali però sbagliano, dal canto loro, a considerare quelle politiche di accoglienza e solidarietà come «alternative» a quelle legate ai rifiuti, l’acqua, il lavoro, l’assistenza, la criminalità, la corruzione. Sbagliano perché fra le due cose non c’è, né deve esserci, competizione.
È chiaro che senza i problemi di cui sopra, connessi alla propria vita di tutti i giorni, ogni nativo avrebbe meno spunti di disappunto verso il tema migranti. Così come è altrettanto chiaro che il problema – che oggi problema ancora è – dell’integrazione di questi ultimi non esisterebbe se l’incastro fosse con un substrato sociale adeguatamente sostenuto e tutelato nei suoi diritti fondamentali. Il dissenso nasce sempre da un disagio. Qualunque sia la genesi di quest’ultimo. Orlando oggi ha deciso di rindossare la doppia veste – cosa a lui peraltro particolarmente congeniale - di politico e amministratore. Nel primo caso sta di fatto colmando un vuoto plateale. Riesce a trascinare nell’agone dello scontro un governo che pur nei suoi continui e costanti balbettii si è finora trovato a barcamenarsi nel vuoto cosmico di una reale opposizione parlamentare.
I problemi maggiori glieli hanno finora creati l’Europa e, adesso, i sindaci della disobbedienza. Davanti alle obiettive ragioni della prima, a Roma hanno dovuto calare il capo. Davanti alle obiezioni dei secondi adesso si trovano a dover gestire la transizione, in attesa che magari la Consulta ponga la parola fine. Su una vicenda, beninteso, che nasce dall’applicazione dei dettami di una norma regolarmente approvata in Parlamento e sottoscritta dal capo dello Stato. Dunque perfettamente legittima. «La legge è valida e va applicata», diceva senza giri di parole ieri in un’intervista a questo giornale un giurista di alto calibro come Giovanni Maria Flick, presidente emerito della Corte costituzionale e già Guardasigilli del governo Prodi, pur sottolineando che con il cuore stava dalla parte di Orlando. Un Orlando che invece da amministratore ha il suo bel da fare nel tentare di arginare le troppe falle che si stanno aprendo nel governo della città. Il paragone non gli piacerà affatto, ma in fondo succede quello che è successo con Cammarata prima di lui e in generale succede con i sindaci al secondo mandato consecutivo: nei primi cinque anni si viaggia sull’onda lunga del consenso, della rottura col passato, dell’annuncio, del progetto; nel secondo quinquennio, quando non basta più progettare o annunciare, ma bisogna concretizzare, qualche grattacapo in più matura e il consenso ne risente.
Da qui a dire che la sua ribellione ai dettami salviniani nasca esclusivamente dall’esigenza di distogliere l’attenzione dai problemi di Palermo e dei palermitani un po’ ne corre. Ma male non fa. A chi non sembra avere ambizioni elettorali nel proprio futuro, se è vero che alla scadenza del suo mandato nel 2022 avrà 75 anni, non potrà ricandidarsi e a chi scrive, fra il serio e il faceto, raccontava prima dell’ultima vittoria alle comunali del 2017 che a fine sindacatura avrebbe fatto solo il pensionato, il nonno o il segretario generale dell’Onu. E siccome quest’ultimo probabilmente non glielo faranno fare …
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