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Il Papa a Palermo: finita la festa, non diventi un santino

Finita la festa, gabbato lo santo? Esaltato ieri don Puglisi, oggi lo possiamo riporre in una nicchia vicino all’altare, trasformato in un rassicurante santino? È questo il rischio di feste splendide ma forse effimere come quelle al Foro Italico e a piazza Politeama con Papa Francesco. Per evitare questo errore dobbiamo interrogarci su due domande ben precise.

Perché don Pino nel 1990 accetta l'incarico di parroco a Brancaccio dopo che sei confratelli avevano rifiutato di andarci, mettendo in difficoltà il cardinale Salvatore Pappalardo? Perché don Pino non se la dà a gambe dopo le minacce di morte, gli attentati, le bombe molotov lanciate davanti alla chiesa? C’è una metafora che si trova in molti studi sul Concilio Vaticano II quando si parla di una nuova ecclesiologia. Si sostiene che si sia passati dalla visione di una Chiesa-piramide a quella di una Chiesa circolare: padre Puglisi condivideva in larga parte questo giudizio. Nella Chiesa piramidale in cima c’è il Papa, poi cardinali, vescovi, monsignori, parroci e la base della costruzione, i poveri laici, sono come schiacciati – in un ruolo non meglio specificato – da tutto il clero e il clericalismo che si trovano sulle spalle. Non solo: c’è il rischio di un carrierismo accentuato, almeno per quei sacerdoti che puntano soltanto a scalare la piramide, magari col trampolino di una parrocchia di prestigio in un quartiere ricco. Ebbene, i sei sacerdoti che rifiutarono Brancaccio avevano in testa la Chiesa-piramide, non abbiamo alcun dubbio.

Coloro che invece - come don Pino - hanno abbracciato la nuova visione di Chiesa circolare credono che, come in un cerchio, al centro c’è Gesù che dà luce a tutti i punti della circonferenza, che sono tutti equidistanti da lui. Come don Puglisi ben sapeva, ogni sacerdote e ogni parrocchia del mondo, anche quella nel luogo più oscuro e degradato come la Brancaccio violenta degli anni Novanta, si trovano Gesù vicino. Non c’è una distanza maggiore rispetto alla cattedrale del vescovo, del Vaticano e di San Pietro. Don Pino trovò il coraggio di accettare l'incarico e poi di andare avanti proprio perché si sentiva Cristo accanto che gli dava luce. Se si fosse considerato solo un piccolo tassello alla base di una gigantesca ed estranea piramide, di certo sarebbe fuggito alla prima burrasca. E, parlando al clero ieri in cattedrale, il Papa ha dato una scossa proprio su questi temi: il sacerdote deve essere elemento di unione e non di divisione, fare il prete non comporta scelte di carriera, invidie, clericalismi.

Secondo punto: la mafia ebbe paura del fatto che don Pino «si portava i picciriddi cu iddu» (i bambini con lui) e «predicava tutta a ‘iurnata» (predicava tutto il giorno). Parole del boss Leoluca Bagarella riferite dai collaboratori di giustizia. In sostanza era un instancabile evangelizzatore ed educatore dei giovani. Questo era già sufficiente per toglierlo di mezzo. Ma le ricerche e le testimonianze hanno anche messo in luce altre scelte che non possono essere dimenticate perché costituiscono quei fatti concreti di cui era impastato l'impegno di don Puglisi. E anche su questo il Papa ha fatto un riferimento concreto nell'omelia di ieri: il sacerdote-martire «non viveva per farsi vedere, non viveva di appelli anti-mafia». Noi potremmo aggiungere che la memoria di don Pino, per esserne degni, va coltivata con gesti concreti, evitando divisioni sulla sua eredità. E annunci roboanti a cui segue il nulla, come – qualche anno fa – per la posa della prima pietra di un santuario a Brancaccio i cui lavori non sono in realtà mai cominciati. Il discorso storico di Bergoglio pronunciato ieri, l'invito alla conversione dei boss, l'affermazione chiara che non si può essere mafiosi e cristiani, tutto questo è merito del sangue versato venticinque anni fa da don Pino.

Pur non essendo un prete «anti», proponeva un’alternativa di fede e di legalità. Metteva quotidianamente in pratica uno stile scomodo che ora – però - deve diventare un modello per tutti i sacerdoti. Ecco allora i punti principali: la povertà personale per essere credibile e non solo credente (di chi non teme di portare ai piedi scarpe bucate); la preghiera e le missioni popolari tra la gente (per annunciare Gesù casa per casa); la formazione dei volontari (per un vero servizio disinteressato); l’analisi anche scientifica dei bisogni del territorio (grazie all’apporto di esperti professionali); la corresponsabilità e il coinvolgimento dei laici nella parrocchia (abbandonando il clericalismo). E ancora: la trasparenza dei conti della parrocchia (quanti rischi da evitare, legati all’amministrazione dei soldi in chiesa!); la moralizzazione delle feste popolari (non si possono ammettere sprechi di denaro per cantanti e fuochi d’artificio); il controllo delle confraternite e dei percorsi delle processioni (basta con gli inchini sotto certi balconi); l’essere coscienza critica delle autorità civili dormienti o colluse (evitando ogni forma di collateralismo con i partiti). Ecco, le abbiamo messe in fila queste ultime righe: sono le vere sfide per la Chiesa se vorrà incarnare sul serio la lezione di padre Puglisi, non farne un santino e trasformare le sue ferite nelle stimmate della resurrezione. Senza dimenticare il Vangelo sotto il braccio e il sorriso sulle labbra.

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