Stavolta sembra proprio che ci siamo. Un giro in tondo in 80 giorni che alla fine sembra aver trovato una quadra attorno alla strana alleanza Lega-M5S e il nome di Giuseppe Conte, pugliese, docente di diritto, con una passione per la pochette e un passato da elettore di sinistra.
Di Maio lo avrebbe voluto alla Pubblica amministrazione nel suo ipotetico governo pre 4 marzo (un’era geologica fa), quando mandò per mail al Quirinale la lista dei suoi ministri. Inaugurando una nuova stagione di scombussolamento politico e procedurale che adesso si dovrà dimostrare vincente. Perché, in attesa della benedizione di Mattarella, probabilmente già stamattina, questo adesso è ciò che gli italiani si aspettano.
Da un governo di (quasi?) tutti debuttanti - come mai nella storia della Repubblica, albori a parte – che segna comunque una svolta importante, in attesa di capire se positiva o meno. Del resto, nella sua lunga e complessa gestazione è saltato parecchio del tradizionale concatenarsi di consultazioni e trattative, fra salite al Colle solitarie, di gruppo e poi di nuovo solitarie, blitz microfonici, contratti notarili, video-selfie sui social, corteggiamenti, matrimoni e divorzi in corsa, test nella rete o nei gazebo sugli umori degli adepti, autocandidature usa e getta, selezioni curriculari e conigli tirati fuori a sorpresa dai cilindri.
Un ribaltamento copernicano di vecchie metodologie più o meno costituzionalmente codificate. Roba da derubricare a ordinaria amministrazione gli edonisti streaming della prima era grillina (preistoria dell’antipolitica a cinque stelle), con i vari Bersani, Renzi o Letta a far loro malgrado da sparring.
E non illuda l’improvvisa concessione istituzionale manifestata alla vigilia da Di Maio e Salvini, i quali si sono affrettati a precisare – dopo aver a modo loro stilato il menu, apparecchiato la tavola e assegnati i posti – che l’ultima parola spetta comunque a Mattarella. Perché proprio il leader leghista ha subito dopo dettato l’altolà a microfoni e taccuini spianati, con quel suo «nessuno metta veti su una scelta che rappresenta la volontà della maggioranza degli italiani».
Che nella sostanza può anche essere corretto, ma non è certo ineccepibile nella forma. Una sorta di inopportuno ultimatum al Capo dello Stato, che secondo i kingmaker del nascente esecutivo giallo-verde dovrebbe limitarsi a ratificare disciplinatamente quanto da loro deciso e condiviso.
Compito ineludibile del Quirinale è però garantire passaggi e procedure in linea con i dogmi costituzionali e soprattutto fare da garante degli equilibri del sistema-Italia agli occhi degli alleati europei. E siccome da Bruxelles o Strasburgo o Francoforte che dir si voglia, i primi segnali concreti sono arrivati – fra polemiche e non sempre opportune reprimende politico-economiche e uno spread tornato prepotentemente protagonista delle cronache quotidiane - allora in carico al Colle rimane tutt’altro che un mero compitino notarile.
E se sul nome del papabile premier, non proprio di grande appeal internazionale ma transeat, Mattarella può abbozzare senza troppe difficoltà, è su altre caselle che l’attenzione che pone è la stessa auspicata dall’intera Europa nonché dall’establishment economico-finanziario internazionale.
In tal senso la delega all’Economia a un Paolo Savona ultraottuagenario, già ministro con Ciampi (l’unico dunque ad aver già fatto parte di un esecutivo in passato) e oggi non esattamente fra i principali sostenitori dell’Euro, potrebbe incidere notevolmente sulla colonnina di mercurio della nuova Italia in Europa.
Gli ultimi strali – in una sorta di staffetta fra Paesi che sa tanto di strategia preparata a tavolino – li manda il tedesco e leader dei Popolari europei Manfred Weber, secondo cui Lega e M5S starebbero giocando col fuoco, con «azioni irrazionali o populiste che potrebbero provocare una nuova crisi dell'euro». Salvini nella risposta non gliele manda a dire. Di Maio si rifugia in un serafico «fateci governare e poi giudicateci».
Governare, appunto. In una unione di forze che, non dimentichiamolo, è post elettorale: quanti avrebbero votato Cinque Stelle se avessero saputo dell’accordo con Salvini (nel Mezzogiorno zoccolo duro del consenso M5S, per esempio)? E quanti avrebbero votato per la Lega orfana di Berlusconi e sposa di un partito non proprio amico, oltre che sostenitore di quel reddito di cittadinanza che garantisce soldi a chi non lavora (soprattutto al Sud) grazie alle tasse pagate da chi lavora (soprattutto al Nord)?
Di Maio prima e Salvini dopo sono usciti gongolanti dai rispettivi colloqui al Quirinale ieri pomeriggio. La speranza è che il loro ottimismo della volontà possa sfociare in un pragmatismo della concretezza. Per il bene del Paese. La quadra sembra essere stata trovata sul «cosa». Resta da capire il «come». Mica poco…
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